Mascle. Una nota agli estramps di Jordi de Sant Jordi
Costanzo Di Girolamo
In una conferenza, finora inedita, tenuta all’Università di Napoli Federico II il 18 maggio 2001, Jaume Coll è tornato sulla lezione, indubbiamente problematica, del v. 33 della canzone in estramps di Jordi de Sant Jordi, Jus lo front port vostra bella semblança (164.10), o più esattamente del secondo membro del verso, così come ci è stato trasmesso dall’unico testimone, il canzoniere dell’Università di Saragozza (P):
Lamor queus hay / en totes les part mascle
La lezione è problematica perché c’è un mancato accordo (en totes les part) e perché il significato di mascle non è affatto autoevidente. Non rifaccio la storia del comportamento dei precedenti editori, una storia che potrà essere ripercorsa in ogni dettaglio se e quando Coll pubblicherà il suo intervento, e vengo immediatamente alle due ultime proposte concorrenti.
La prima risale all’edizione Riquer 1955, ripresa poi senza modifiche nell’edizione Riquer & Badia 1984:
L’amor que·us hay en totes les part[s] m’ascla
L’integrazione della -s in part[s] appare del tutto pacifica. Quanto a mascle, esso viene inteso da Riquer 1955 e da Riquer & Badia 1984 come forma del verbo asclar, documentato in catalano (vedi il rimando al DCVB in nota all’edizione Riquer & Badia 1984: 175, a cui è ora da aggiungere la voce ascla, molto più esauriente, del DECLlC) e, già prima, in occitano (LR II 132, SW s.v.), con il significato di ‘spaccare, fare a pezzi’, verbo denominale da ascla ‘pezzo di legno, grossa scheggia’ < ASSULAM, dim. di ASSEM ‘tavola di legno’. Nei trovatori asclar compare una sola volta in una scena di battaglia, nel famoso sirventese di Bertran de Born, Be·m plai lo gais temps de pascor: E qand er en l’estor intratz, / chascus hom de paratge / non pens mas d’asclar caps e bratz, / car mais val mortz qe vius sobratz (P.-C. 80.8, v. 39); e a contesti guerrieri rinviano anche gli altri esempi, non lirici, dei lessici (il SW registra inoltre il part. pass. sost. asclatz, s.v., «Splitter, abgesprungenes Stück», nella Canzone della Crociata, lassa CCIV, v. 23). Nella nostra canzone, la -e in luogo della desinenza -a si spiega facilmente con la frequentissima confusione, presso i copisti orientali, tra a e e in posizione atona, dovuta alla neutralizzazione di queste vocali.
La seconda proposta, avanzata da Fratta 2000, è quella di leggere mescla:
L’amor que·us hay en totes les part[s] mescla
Il verbo sarebbe interpretabile «1) come forma mediale (‘l’amore che vi porto mi invade tutto’; lett. ‘si intrufola in tutte le parti [della mia persona]’); 2) con valore assoluto di ‘confondere, creare confusione’ (in pratica ‘sconvolge ogni parte di me’). La seconda ipotesi è forse da preferire perché con questo significato 33 anticiperebbe quanto ribadito a 37 (Mas suy torbats que no fonch Aristotills)» (2000: 190). Jordi usa mesclar solo in un’altra occasione (Pus que tan be sabetz de cambiar, 164.13, v. 11), in un contesto completamente diverso. Il verbo mesclar, il sostantivo mescla e l’avverbio mescladament compariranno, ripetutamente, in Ausiàs March (per un totale di 44 occorrenze), dove tuttavia assumono valori semantici del tutto specifici e propri di quel poeta. Fratta non lo dice, ma il presunto errore potrebbe essere giustificabile con un’inversione di lettere simile a quella del v. 30, dove il copista ha scritto justametz per jusmetetz.
Fin qui, le due ipotesi potrebbero essere valutate, da alcuni, come parimenti accettabili; mentre altri potrebbero giudicare quella di Fratta meno economica, perché si individua con essa un vero e proprio errore, sia pure meramente grafico, quale sarebbe mescla per mascle, laddove esiste la possibilità di salvare la lezione del codice dandone comunque una spiegazione plausibile. In linea di principio, però, anche Fratta potrebbe avere le sue ragioni, ad esempio di natura interpretativa, per preferire un atteggiamento più aggressivo nei confronti del testo. Quando infatti si elogia, sulla scia di Contini, l’ipotesi più economica («un’edizione critica è, come ogni atto scientifico, una mera ipotesi di lavoro, la più soddisfacente (ossia economica) che colleghi in sistema i dati», 1939: 369), ciò non dovrebbe comportare inevitabilmente la piatta adesione al dato materiale: lo stesso Contini operò, specie sul testo dei poeti italiani del Duecento, interventi che oggi ci appaiono spericolati, e che pure, rispondendo a determinate ipotesi di lavoro, risultavano a lui perfettamente economici.
Tuttavia, una soluzione alla nostra questione esiste: il suo grado di certezza ovviamente non è e non può essere di ordine matematico, ma, per dirla alla buona, è una soluzione che taglia la testa al toro. «O italiani, io vi esorto alle Concordanze!», era l’accorato appello ancora di Contini (1951: 184), e in effetti le concordanze servono a qualcosa. L’uso che in questo caso ne facciamo è del tutto atipico, inverso, perché, come sarà subito chiaro, cercheremo, e troveremo, qualcosa che si potrebbe definire una fonte alla rovescia. Per capire da che cosa prende le mosse la nostra ricerca bisogna ricordare la caratteristica principale di quel particolarissimo genere metrico che sono gli estramps. Come è noto, e come abbiamo illustrato nei dettagli altrove (Di Girolamo & Siviero 1999), negli estramps la ripresa dei non-rimanti da altri autori è sistematica e va ben al di là dell’omaggio sporadico alle auctoritates vulgares. Possiamo perciò chiederci se il non-rimante del v. 33 di Jus lo front, mescla o ascla, abbia lasciato traccia nei poeti che dopo Jordi hanno usato questa forma metrica.
Dai dati del Rialc risulta che mescla/mescle (sostantivo e verbo all’indicativo o al congiuntivo) compaiono sei volte con funzione di non-rimanti nei nove estramps di March, in tutto 1208 versi: si tratta però di un dato poco significativo, per diversi motivi. Anzitutto, come si è detto, mesclar e mescla, con le connotazioni che hanno in tutta sua opera, e non solo nei nove estramps, sembrano voci esclusive del suo vocabolario erotico, sicché la presenza di tali parole nei suoi estramps non dimostra granché. Inoltre, uno studio attento degli estramps di March rivela che in lui l’uso di non-rimanti autorevoli è assai più basso che in altri poeti: i vari non-rimanti in comune con Jordi (arbre/-es, arma, contempla/-e, delicte, encontre, ferma, noble/-es, ombra, segle, semblança, visca) sono forse i meno connotati come jordiani e dovevano fare ormai parte del rimario standard del genere. Significativo il caso di CXVII (94.45), v. 222 qu’en mi roman tal signe o caracte, dove March perde l’occasione, che la metrica gli consentiva, di mettere in posizione finale signe, non-rimante di Jordi, a conferma del fatto che questo gioco non era in cima ai suoi pensieri. Caracte compare unicamente negli estramps di Bertomeu Dimas (51.2, v. 18), poesia raccolta nell’incunabulo delle Trobes en lahors de la Verge (1474), ed è probabilmente parola derivata proprio da March; come probabilmente derivata da March è anche la mescla di Mossèn Barceló (13.1, v. 26), che troviamo nello stesso incunabulo mariano. Oltre che in March, quindi, mescla compare solo in un’altra canzone in estramps, e va perciò ragionavolmente escluso che comparisse in Jordi, i cui non-rimanti affollano tutti gli esemplari di questo genere. L’ipotesi di un originario mescla ci ha dunque portati in un vicolo cieco.
A conclusioni ben diverse, in termini di certezza, arriviamo se andiamo alla ricerca di ascla. In tutto il corpus del Rialc ascla, anzi ascle, ricorre una sola volta, al v. 117 della Vita de la sacratíssima Verge Maria di Joan Roís de Corella (154.3). Cito la stanza in cui si trova la forma dall’edizione di Miquel i Planas (1913: 397), senza nessun ritocco grafico:
Donchs, mereixeu los angels vos adoren,
puys lo quils feu, seruint axius adora;
besaus la ma, ab continent alegre,
lo qui ha fet los Cels hi los abissos;
mas, com passa lo vostre cor hun ascle
quand Vos perdes Aquell qui tots nos guia!
Fon gran dolor la que tingues tres dies,
fins quel trobas disputant, en lo temple!
Il fatto che qui ascle sia un sostantivo e non un verbo non ha nessuna importanza, perché negli estramps è ammessa la ripresa dei non-rimanti sia per derivatio (arbre :: arbres, contempla :: contemple, ecc.) sia per aequivocatio (ferma aggettivo :: ferma verbo) sia per leonisme (signe :: insigne). In questo componimento, di 184 versi, Corella riprende ben 19 dei 52 non-rimanti di Jordi (arbre, cambra, carçre, carvoncle, cella, cercle, coloma, emprenta, encontre, festa, figura, home, insigne, penetra, registre, retaule, sepulcre, setgle, steles), una selezione che lascia chiaramente intendere che quella canzone costituiva per lui la principale fonte a cui attingere. È a questo punto ragionevole pensare che anche ascle sia stato mutuato dalla serie jordiana, e che quindi al v. 33 di Jus lo front il poeta volesse dire m’ascla e non mescla.
Naturalmente, come spesso accade, chiuso un problema se ne apre un altro. Infatti, perché hun ascle? Va premesso che di questi estramps di Corella esistono due testimoni, che sono da considerare distinte redazioni d’autore: la prima, che secondo Riquer (1984-85: IV, 136) sarebbe anteriore al 1474, è copiata nel cosiddetto codice di Mayans (U), mentre la seconda appare alla fine dell’incunabulo del Primer del Cartoxà (València, 1496), ed è su di essa che Miquel i Planas basa la sua edizione (un’ulteriore redazione, intermedia e molto abbreviata, qui non ci interessa perché il nostro verso manca: cfr. 154.28). L’editore, rispettando molto da vicino la stampa, non separa le parole né introduce segni diacritici (trascrive perciò 3 letern, 6 lamprenta, 114 axius, ecc.), sicché non sappiamo se intendesse ascle come maschile (un ascle) o come femminile (un’ascle). Aggiungo che il codice di Mayans legge allo stesso identico modo, ascle. Essendo sia il manoscritto sia l’incunabulo di area occidentale, la -e per -a non è imputabile alla solita confusione grafica dovuta alla vocale neutra, e pertanto va trovata una diversa spiegazione. Ora, sembrerebbe da escludere che una voce femminile si sia trasformata in maschile: la parola non è documentata al maschile né in catalano né in antico occitano, almeno non con un significato adatto al nostro contesto (ascle è una specie di anatra selvatica, di passaggio all’Albufera di Valenza); è vero che il TF registra un ascle maschile, con lo stesso significato del femminile asclo, «bûche, grosse pièce de bois», nella regione del Var (s.v. ascle), ma sarebbe azzardato figurarsi per il catalano lo stesso cambiamento di genere, in assenza di altre testimonianze. La prudenza però non è mai troppa nemmeno in senso contrario. Nella filologia italiana è noto il caso di un affrettato intervento, ad opera di uno dei maggiori filologi e storici della lingua del Novecento, che nella sua edizione di un testo in antico siciliano corresse la ventri in lu ventri ‘il ventre’: la forma al femminile fu successivamente documentata. C’è anche da dire che nel verso di Corella la parola sembra avere un significato un po’ diverso da quello di ‘pezzo di legno, grande scheggia di legno o di altro materiale’ e indicare piuttosto qualcosa che trafigge, ad esempio un chiodo di legno o una spina: una specificazione di significato che potrebbe giustificare il cambio di genere in una voce di cui, in ogni caso, abbiamo sparutissime attestazioni antiche in occitano e in catalano (vedi il LR, a cui nulla aggiunge il SW, e il DECLlC, che però ignora l’esempio corelliano).
Se ascle fosse da considerare un errore, si tratterebbe evidentemente di un errore d’archetipo, dato che è comune a entrambi i relatori; ma sulla sua genesi si dovrebbe forse avanzare più di una ipotesi. La prima è che si tratti di un banale trascorso di penna, meccanicamente riprodotto nei due apografi. Una seconda ipotesi è che questi ultimi facessero capo a un archetipo orientale, sistematicamente ripulito delle oscillazioni e/a in posizione atona, o quanto meno in posizione finale, ma non in questo caso particolare, forse per l’incomprensione o per la relativa rarità della forma; tuttavia, a differenza di altre opere di Corella, non esistono indizi di una tradizione orientale di questo componimento. La terza ipotesi dà una spiegazione per così dire autoctona dell’errore, che potrebbe tradire un tratto dialettale di un copista, passato poi ad altri: il fenomeno riguarda la -A finale latina, che in certe zone dell’area nordoccidentale e occidentale, tra cui alcune località del Valenzano, si evolve in -e aperta o chiusa o nella vocale indistinta (cfr. Badia Margarit 1981: § 63.I; ma vedi anche DCVB, s.v. ascla, che registra le variazioni fonetiche da zona a zona, e naturalmente, per il fenomeno in generale, le carte dell’ALC); sicché, in questo caso, non si potrebbe nemmeno parlare di errore. Non mi risulta che il problema sia stato molto approfondito, con riferimento alla scripta dei copisti: Veny ha studiato alcune oscillazioni e/a (una sola in posizione finale) in un testo leridano, spiegandole in termini di dissimilazione, analogia, ecc. (1971: 110-112); d’altra parte, Orland Grapí mi segnala alcuni esempi di alternanza -e/-a (-e al posto di -a e viceversa) in manoscritti valenzani, a cui si dovrebbe aggiungere il nostro ascle. A complicare le cose c’è il fatto che, come ho detto, la stampa presenta rispetto al manoscritto evidenti varianti d’autore, il che obbligherebbe a ipotizzare l’esistenza di due archetipi distinti, entrambi portatori dello stesso errore o dello stesso tratto dialettale.
La questione rimane perciò aperta e potrà essere riproposta solo dopo una più accurata ricognizione della fisionomia linguistica e degli abiti grafici dei due testimoni corelliani e, più in generale, dei manoscritti e delle stampe valenzane. Per il momento, mi pare chiarito al di là di ogni ragionevole dubbio il significato di mascle nella canzone di Jordi de Sant Jordi, che era quanto in questa nota ci si proponeva di fare.
Bibliografia
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Messo in rete il 3.vi.2001