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Libri ricevuti ragionati

Ferran Garcia-Oliver & Víctor G. Labrado, «L’entorn familiar de Jordi de Sant Jordi», Afers, n. 35, 2000, pp. 219-229. – ISBN (del fascicolo) 84-86574-81-1

Jordi de Sant Jordi era figlio di uno schiavo musulmano, poi liberto e converso. Ferran Garcia-Oliver e Víctor G. Labrado ricavano questo inconfutabile dato, non privo di implicazioni che trascendono l’ambito strettamente biografico, da un documento pubblicato due anni fa da Augustín Rubio (Epistolari de la València medieval, València-Barcelona, Institut Interuniversitari de Filologia Valenciana - Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 1998, pp. 333-334), la cui importanza era sfuggita all’editore per la mancata identificazione dei personaggi nominati. Si tratta di una lettera dei giurati di Valenza agli ambasciatori della città presso la corte del Magnanimo, datata 27 aprile 1416, con la quale si chiede che il sovrano revochi l’ordine alla badessa e alle monache del monastero cistercense della Saïdia di accogliere la sorella di Jordi, Isabel; richiesta più volte ripetuta da Alfonso (fino al giugno del 1419) e sostenuta in separata sede anche dalla regina, Maria di Castiglia. Dalla documentazione già nota, si capisce che il monastero si opponeva all’ingresso di Isabel, benché, alle fine, la volontà del re si impose e la giovane fu fatta monaca, diventando perfino tesoriera e sacrestana; ma le ragioni di questo lungo braccio di ferro erano finora tutt’altro che chiare. Jordi Rubió i Balaguer aveva insinuato il sospetto che la famiglia fosse di origini ebree: «Seria sorprenent que pertenyés al seu llinatge el Joan de Sant Jordi que, anys més tard, apareix a la cancelleria reial i fou secretari de Joan II. Era convers i el 1491 fou cremat en estàtua» (Història de la literatura catalana, Barcelona, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 1984, vol. I, p. 325); Martí de Riquer e Lola Badia hanno invece pensato alla difficoltà di mettere insieme una dote adeguata per la monacazione in un monastero esclusivo come quello della Saïdia (Les poesies de Jordi de Sant Jordi, cavaller valencià del segle XV, València, Tres i Quatre, 1984, pp. 15-16). La vera ragione appare spiegata con tutta chiarezza dai giurati di Valenza:

 

Per part de la reverent abbadessa del monestir de la Çaydia d’aquesta ciutat, nos és estat explicat com lo molt alt senyor rey ha manat a aquella que reeba e do l’àbit del dit monestir a una dona, germana d’en Jordiet, lo qual se diu que és de la sua cambra, dient en la dita explicació que açò hauria proveït lo dit senyor, ignorant e no informat com les dones qui són admeses en monges del dit monestir són donzelles de gran estat, ço és, filles de nobles hòmens, cavallers e de notables ciutadans. E, segons nosaltres sabíem, lo dit Jordiet e germana de aquell eren fills de hun moro catiu qui aprés fon christià e libert, hoc e axí mateix la dita dona que és diffamada de son cors, concloent, en effecte la dita abbadessa que aquella, i totes les monges conventuals del dit monestir, venien acordades de desemparar aquell ans de soferir que tal persona fos admesa en llur convent.  (223)

 

Da un altro documento, menzionato nell’edizione di Riquer e Badia (p. 52), apprendiamo anche i nomi dei genitori: Joan e Maria (come ipotizzano Garcia-Oliver e Labrado, Maria è «un nom que, en la seua simplicitat, seggereix idèntica condició d’esclava redimida, amb la preceptiva diligència baptisimal», p. 224; anche se, per la verità, la stessa regina si chiamava Maria). Questo eccellente studio ricostruisce con finezza la graduale affermazione di una famiglia, la cui «naturalització definitiva s’ha assolit amb la segona generació» (p. 226), sotto la determinante protezione del re, che nel 1418 interviene nuovamente a favore dei Sant Jordi, raccomandando all’abate di Poblet di accettare come monaco «un parent del feel cambrer nostre en Jordi de Sant Jordi [. . .] per esguard del dit Jordi, que de açò nos ha supplicat» (Riquer e Badia, p. 47).

Ora, se Jordi de Sant Jordi era di così umili natali, c’è da chiedersi a che si deve la sua fulminea carriera a corte: cambrer di Alfonso già nel 1416, quando poteva avere tra i sedici e i vent’anni; cavaliere nel 1420; beneficiario di importanti alcaidies e alqueries; quasi sempre al fianco del re nelle sue spedizioni; in compagnia dei migliori cavalieri aragonesi e catalani quando nel 1423 cade prigioniero di Muzio Attendolo (non Francesco, come si dice a p. 228) Sforza... Senza dubbio, una meteorica ascesa per il figlio di un moro; e un’ascesa che non può nemmeno essere attribuita ai suoi meriti militari, perché il trattamento di riguardo che gli riserva il re precede di almeno quattro anni la sua partecipazione a imprese di guerra. Garcia-Oliver e Labrado avanzano, forse con eccessiva cautela, una possibile spiegazione del successo di «en Jordiet», ricordando che il marchese di Santillana, nel suo famoso Prohemio e carta, lo menziona come musicista oltre che come poeta («conpuso asaz fermosas cosas, las quales él mesmo asonaua, ca fue músico excellente»):

 

Si Jordi de Sant Jordi era un compositor i intèrpret tan consumat sent encara jove [. . .], devia començar la formació musical a una edat molt prematura, i potser i tot que la música fós alguna cosa més que una afició familiar. Ara, establerta la humil extracció social del poeta, sembla plausible que un acreditat virtuosisme precoç facilités l’entrada d’en Jordiet com a servidor del príncep Alfons, ja abans de la seua coronació com a rei. La filiació islàmica més o menys boirosa no s’hi havia de presentar com cap entrebanc, com ho avala les reiterades ocasions en què els professionals moros de la música i la dansa, conversos o fidels a la religió propia i original, eren acollits, valorats i, si calia, protegits en la cort del Magnànim.  (227)

 

Ma si può dire forse di più. Un’idea di Josep Piera, espressa in una conversazione privata, è che probabilmente anche il padre fosse un musicista. A favore di questa ipotesi, c’è il dato di fatto che la musica profana si imparava all’epoca esclusivamente con l’apprendistato, per esempio paterno. Inoltre, se si ipotizza che prima della schiavitù Joan fosse introdotto, proprio in quanto musicista, negli ambienti delle corti andalusine, e fosse quindi aduso a modi di vita principeschi, Jordi potrebbe avere avuto, fin da piccolo, un’educazione tale da renderlo agli occhi di Alfonso un perfetto cameriere reale. D’altra parte, che significa, nella lettera dei giurati, la frase «la dita dona que és diffamada de son cors»? Forse Isabel (ipotizza ancora Piera, ed è l’unica spiegazione plausibile) era o era stata una ballerina?

Musicisti, ballerine: ma perché non parlare più semplicemente di giullari e giullaresse? I giullari mori sono documentati nelle corti cristiane iberiche fin dall’epoca di Sancio IV di Castiglia e León, e dovevano essere certo presenti, già prima, alla corte di Alfonso X. Se così è, Jordi sarebbe un figlio d’arte, formatosi in una famiglia di giullari, e sarebbe stato apprezzato in primo luogo per le sue capacità giullaresche, più che di semplice musicista. In effetti, il marchese di Santillana accenna al fatto, eccezionale all’epoca, che Jordi musicava i suoi componimenti, come i trovatori di un tempo; e, forse, era in grado di cantare a corte le canzoni degli antichi poeti oltre che le sue. Un piccolo indizio: nel devinalh (164.17, v. 41), il poeta dice «Cant xant me par de que·m prench a ’dular», dove ovviamente il verbo xant, contrastato con udular, va preso alla lettera, non nel senso di ‘comporre’. In questa luce, la Pacio Amoris secundum Ovidium (164.14), il poemetto allegorico che incorpora numerose citazioni liriche, potrebbe essere vista come un vero pezzo di bravura a misura del virtuosismo di un giullare: nell’esecuzione, al recitativo delle parti narrative si alterna il canto aperto, semmai con un accompagnamento strumentale, dei frammenti di canzone. La padronanza di un ampio repertorio giullaresco spiega anche la profonda conoscenza della tradizione trobadorica da parte del poeta; e mi riferisco non tanto ai numerosi echi testuali quanto alla sistematica ripresa di generi minori, come l’escondit, l’enueg, il maldit, il devinalh...

In questa recensione, molti, perfino troppi, sono i condizionali, i se e i forse: si tratta, beninteso, della ricostruzione ipotetica di una vicenda biografica e artistica comunque singolare, se non unica, nella Valenza del Quattrocento. In ogni caso, è difficile congetturare che il piccolo Jordi possedesse altre doti, al di là della sua arte e di una captenensa appresa in famiglia, che potessero garantirgli la sua personale fortuna, interrotta da una morte prematura. La sua vita, se fu tale come l’abbiamo immaginata, è per certi aspetti parallela a quella di un trovatore provenzale vissuto più di duecento anni prima: Raimbaut de Vaqueiras, figlio di un povero cavaliere, esordì, secondo la vida, come giullare e si affermò poi alla corte del marchese Bonifacio I di Monferrato, dove dovette sicuramente essere accolto per la sua notorietà di trovatore, non per altro; ma accanto a Bonifacio, che aveva la sua stessa età (coetanei erano anche Jordi e Alfonso), finì per prendere parte, fin da giovane, a azioni militari e a imprese cavalleresche. Nel 1194 o 1195 fu investito cavaliere: come giustamente ha osservato Riquer, «vale la pena insistir en la importancia de este hecho, pues es un dato decisivo para advertir que, sin duda por méritos fundamentalmente de orden literario, un trovador de ascendencia pobre, tal vez humilde, era elevado a un rango superior» (Los trovadores. Historia literaria y textos, Barcelona, Planeta, 1975, pp. 811-812). Raimbaut morì nel corso della quarta crociata, forse ucciso al fianco del suo signore, che ne era a capo, nel 1207, in Bulgaria.  [C. Di G.]

 

[ix.2000]     

 

 

Questa pagina è apparsa, in catalano, con il titolo «Jordi de Sant Jordi, de joglar a cavaller», in Afers, n. 37 (2000): 785-788.

 

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