Annotazioni a margine di una recensione

 

 

Nel n. 38 (2005) di Caplletra, alle pp. 309-312, Josep Lluís Martos ha pubblicato una recensione all’edizione delle Poesies di Jordi de Sant Jordi a cura di Aniello Fratta (Barcelona, Editorial Barcino, «Els Nostres Clàssics», Col·lecció B, 26, 2005), su cui ho alcune osservazioni da fare. Quelli che seguono sono, partitamente, i rilievi critici che il recensore muove a questo lavoro.

«... seguint la normativa d’ “Els Nostres Clàssics”, Fratta accentua i separa les paraules segons la normativa actual. No obstant això, no és sistemàtica l’accentuació, que arriba a incloure faltes d’ortografia respecte a la normativa actual, que diu seguir: “ab que·m salvets la vida sens engan” (3, v. 43), malgrat que sí que accentua el relatiu precedit de preposició en altres contextos (3, v. 22). El que pot semblar un error menor és símptoma d’una manca de revisió escrupolosa del text editat» (p. 309). Occorre spiegare al severo recensore, che parla di errori di ortografia e dell’assenza di una revisione scrupolosa, che il primo ab que è una locuzione congiuntiva, ‘purché, a condizione che’, e che quindi non c’è alcun pronome relativo, come lui per distrazione sembra pensare; il secondo ab què, accentato, è invece un pronome preceduto da una preposizione, ‘con cui’. Per maggiore chiarezza, a beneficio del recensore, riporto i due contesti con una traduzione: «me don a vós e·m ret dins vostra tenda, / ab que·m salvets la vida sens engan» (3, vv. 42-43) ‘mi consegno a voi e mi arrendo nella vostra tenda, / a patto che mi facciate salva la vita senza inganno’ (o il recensore intende che la vita possa essere salvata ‘con la tenda’?); «e vets aysí tots los pertrets qu·eu hay, / ab què·m defèn mon cor dins en sa força» (3, vv. 21-22) ‘ecco, sono queste tutte le munizioni che ho, con le quali il mio cuore mi difende nella sua fortezza’. Il recensore, che nella stessa pagina si dichiara un affezionato abbonato a «ENC», avrebbe potuto fare lo sforzo di accertarsi che le due distinte grafie rispettano i criteri della collana. Veda ad esempio l’edizione Bohigas di Ausiàs March, non solo quella recente rivista, anche nella grafia, da Soberanas (2000), ma già la prima degli anni cinquanta: «tot se farà lo que serà manat / ab que d’amar no ssia deffenssat» (XLVIII 22-23) ‘purché...’; ma: «Ma voluntat, ab què·n la mar fuy mes» (XXVII 34) ‘con cui...’ (un paio di errori nell’edizione 1952-59, a XXXVI 23 e XXXVIII 24, sono stati corretti da Soberanas). La locuzione è del resto regolarmente registrata, senza accento, nel DCVB, s.v. amb, a I 8, come in qualsiasi altro dizionario catalano.

«ans, vulhats ho no, us amaray» (2, v. 44). Osserva il severo recensore: «En el manuscrit, trobem “ans, vulhats ho no, vos amaray”. Efectivament, el més abitual és que la forma us cliticitze en contacte amb una vocal precedent, formant un diftong amb la u com a semivocal, i no cal la seua transformació en vos; no obstant això, aquesta sistematicitat desapareix amb el temps i no podem actuar lingüísticament de manera tan lleugera, perquè podríem mutilar dades de l’evolució del fet lingüístic. D’altra banda, també el caràcter parentètic de “vulhats ho no” pot haver prodüit una pausa forta que no permetera la fonètica sintàctica —o, millor, la cliticització— del pronom feble us» (p. 310). Concentrato in questa lunga e avvincente disquisizione sulle particelle, condita da accuse all’editore di leggerezza e di crudeli pratiche mutilatorie dei dati dell’evoluzione linguistica, il recensore non si rende conto dell’ovvio motivo dell’intervento: con vos il verso è ipermetro. A questo piccolo e perdonabile errore di calcolo (non tutti sanno contare le sillabe di un verso, nemmeno aiutandosi con le dita delle mani), si somma un’omissione più grave, forse dovuta alla fretta: quella di non avere cercato, sia pure per curiosità, un chiarimento in nota, dove l’editore spiega diligentemente al lettore: «us amaray: corregeixo la hipermetria (no percebuda per Riquer-Badia 1984) segons la proposta de Siviero 1997». Con tutto il rispetto e l’affetto per la storia della lingua catalana e le sue preziose testimonianze, e posto che non possiamo pensare che il poeta si sia sbagliato nel contare le sillabe, la correzione, sulla base del dato documentario, è obbligata ed è anche l’unica possibile. Ed è forse superfluo aggiungere che il pronome personale clitico ridotto (·m, ·t, us ecc.) dopo un inciso è ampiamente documentato sia nella poesia occitana che in quella catalana.

«La regularització de i/j tampoc és sistemàtica. Sorprén molt veure que es transcriu la rúbrica del poema 4 com a Comjat i, fins i tot, que aparega aquest mot així dins el cos del poema, en els versos 7 i 22. He buscat alguna explicació en els criteris d’edició i en les notes al poema i no n’he saput trobar cap; potser, Fratta edita comjat per l’entrada que en DCVB dóna com a variant ortogràfica antiga de comiat. Però, si regularitza les i/j, qué pensa Fratta que és la i llarga de comjat?» (p. 310). Al severo recensore sfugge completamente che la questione non è qui di carattere grafico. Comjat e comiat, in antico catalano come già in occitano, sono due forme concorrenti e l’esistenza della prima è provata da grafie come comgat e perfino comjyat (un caso parallelo è camjar/camiar). Sfugge anche, e dunque è opportuno ricordarglielo, che comjat è bisillabico, mentre comiat è trisillabico. Veda per esempio: «e prengren tuyt comjat» (Jaume March, Rialc 95.6, 96), «On prench comjat sens far major demora» (Pere de Queralt, Rialc 141.1), «Del mieu comjat say que no us daretz cura» (Guillem de Masdovelles, Rialc 101.14, 45); ma: «finit mon temps prench comiat d’amor» (Romeu Llull, Rialc 90.17, 42), «dona, de vos, com sabeu, comiat» (Joan Berenguer de Masdovelles, Rialc 103.118, 10), «ans que moris pres darrer comiat» (Guillem Gibert, Rialc 75.1, 15). In Jordi de Sant Jordi comjat ricorre tre volte, e questo è l’unico modo possibile di trascrivere la forma, indipendentemente da come appare nei codici, perché è sempre bisillabica: se si stampasse comiat, si genererebbe un’ipermetria. Lo stupore del recensore («Sorprén molt...») è perciò fuori luogo e dipende dal fatto che dimentica nuovamente che Jordi de Sant Jordi scriveva in versi. Certo è un torto dell’editore non avere previsto lettori, e recensori, tanto ingenui e non avere fornito, a loro specifico vantaggio, un supplemento di informazioni elementari.

I rilievi critici veri e propri, in merito ai quali si possa dare una risposta, si riducono a questi soli tre, anche se sono, come chiunque può vedere, più che sufficienti a rendere manifesta l’incompetenza del recensore. Le mie osservazioni potrebbero perciò finire qui, perché potrei facilmente concludere che non vale la pena continuare; ma andiamo pazientemente avanti. Gli altri rilievi o mirano a bersagli diversi dall’editore o si risolvono in valutazioni negative così generiche da non consentire alcuna replica.

Il recensore lamenta che l’editore sia venuto meno alla seguente promessa: «Atesa ... l’occitanitat de la seva llengua poètica —sovint coincident, pel que fa al timbre vocàlic, amb la valencianitat de la seva parla—, i a fi d’evitar la proliferació de rimes falses que només foren aparents, s’han adoptat en general aquelles solucions que la normativa catalana preveu per a les seves modalitats valencianes, conforme a una pràctica ja establerta en l’edició d’altres poetes catalans posttrobadorescos» (p. 45). Infatti stampa alcune parole, nessuna delle quali in rima, «amb accentuació oriental: “defèn” (3, v. 22), “tramès” (5, v. 11) i, fins i tot, “mès” (5, v. 5 i v. 18), un participi de present que el Diccionari de la Llengua Catalana de l’IEC recull com a “mes”, sense accent» (pp. 309-310). Ancora una volta il recensore dà prova di non essere in grado di capire quello che legge: a 5, v. 5 («les quals hi mès Dieu, qui n’à fayt retaules») e v. 18 («tot ço que y mès en lo temps del dilluvi») non c’è nessun participio («un participi de present»: devo credere ai miei occhi?) bensì un perfetto, ‘mise’. Quanto al nocciolo della lamentela, il recensore va informato che i criteri grafici di «ENC» sono graniticamente blindati: possono essere considerati discutibili quanto si vuole (e non è affatto questo il luogo per discuterli) e sono anche variati nel tempo, ma non sono in nessun modo negoziabili con i singoli editori. Detto questo, sono sollevato dall’esprimere la mia opinione al riguardo, che ho già dichiarata in altre occasioni e con la quale sono certo che Fratta concordi. Nello specifico, il criterio voluto dalla collana per questo volume è che l’accento rispecchi il vocalismo solo in rima. Abbiamo quindi mès ‘mise’ e tramès ‘trasmesso’ con l’accento grave, nonostante la e sia chiusa sia in occitano che in valenzano, perché non in rima, ma per esempio sotsmés (14, v. 5) e malmés (18, v. 100), formati con il participio passato -mes (con e chiusa in occitano e in valenzano), con l’accento acuto perché in rima con altre e chiuse. Il participio passato mes ‘messo’ è stampato sempre senza accento (11, v. 7; 14, v. 39 ecc.), come gradito non solo all’IEC ma al mondo intero (nel March di Bohigas 1952-59, tuttavia, mès). Infine, defèn (con e chiusa) nemmeno è in rima. Queste sono le regole della casa: gli ospiti educati le rispettano, i maleducati vengono messi alla porta. Si prende comunque nota che il recensore, intento a lanciare le sue accuse, ha scambiato un perfetto per un participio passato, chiamandolo per giunta participio presente.

Le altre due pagine della recensione contengono l’espressione di un radicale sgradimento di quasi tutto, o meglio proprio di tutto: l’introduzione di quaranta pagine è troppo breve, l’equilibrio delle parti è sbagliato, insomma «és poc original, no molt rigorosa, descompensada i insufficient» (p. 311). Perfino lo stile è riprovevole, svelando con i suoi tratti talora personali e diretti «l’investigador poc avesat» (p. 312). Non va bene nemmeno che il sondaggio linguistico privilegi i rimanti, un criterio per la verità che Fratta non ha avuto il merito di inventare, perché anche i rimanti possono contenere errori (ed è una bella scoperta: ma il criterio si fonda proprio su questo, che gli errori quando ci sono si vedono). Tale tipo di giustizia sommaria lascerebbe indignati anche se a esercitarla fosse un recensore autorevole, che emettesse sentenze senza ragionarle e senza sottoporre le prove al vaglio del lettore: questo non va bene per queste ragioni, invece di così si doveva fare in un altro modo, qui sei stato poco rigoroso quando scrivi questo, forse (perché un forse non fa mai male) si poteva trovare un’altra soluzione, e così via. Esercitata dal nostro severo e incompetente recensore, fa sorridere. Le tre o quattro bordate che spara dal suo battello gli ricadono addosso in maniera esilarante. Il recensore potrà accusare anche me di stile mediocre, e dunque di essere un «investigador poc avesat», ma la sua maldestra strategia mi fa irresistibilmente pensare allo sfortunato personaggio di Wile E. Coyote che tende agguati di ogni tipo a Road Runner, salvo poi a restarne lui stesso, ogni volta, malconcio, bruciacchiato dalla dinamite, che non sa maneggiare, o schiacciato dal solito macigno o precipite in fondo a un canyon.

L’avversione del recensore per il recensito, di cui si ignorano i motivi, si tocca con mano quando viene evocata una vicenda remota e che con l’edizione non c’entra niente. «Sura al llarg del treball una obsessió sistemàtica per mantenir-se fidel al testimoni base i divergir de l’edició de Riquer i Badia quan és possible fer-ho. ... Valga com a exemplificació el despropòsit de llegir mescla en la variant [«variant»? la canzone è trasmessa da un unico testimone; ma sorvoliamo...] mascle del poema dels Stramps, que Fratta havia proposat en un article anterior i que no va arribar a aquesta edició gràcies a una nota de Di Girolamo, que proposava mantenir la lectura de Riquer i Badia» (pp. 310-311). Ora, l’affermazione che l’editore sia ossesionato dall’ansia di divergere dalla precedente edizione va dimostrata come minimo sulla base di una serie di esempi; e ovviamente andrebbe soprattutto dimostrato che le divergenze sono inutili e sbagliate. Invece il recensore riesce a menzionare solo un emendamento suggerito da Fratta nel 2000, sul quale nel 2001 è intervenuto chi scrive. L’idea di Fratta che il non-rimante mascle (il termine «mot rima» usato dal recensore a p. 312 è improprio, perché il genere metrico degli estramps non ha né rime né parole-rima) potesse essere corretto in mescla non era affatto peregrina o temeraria: la mia argomentazione in senso contrario si fonda esclusivamente su dati esterni, cioè sulla ripresa del non-rimante jordiano, nella lezione in cui ce lo trasmette il codice, in un poeta successivo che utilizza altri non-rimanti della stessa canzone.

L’episodio ricordato dal recensore, evidentemente a scorno dell’editore, va invece letto in ben altro modo. Non è un mistero per nessuno che Fratta lavora gomito a gomito con me da molti anni nel mio gruppo di ricerca, che a sua volta fa parte di una rete che comprende dieci università. La stessa edizione di Jordi de Sant Jordi è nata come parte di un progetto sulla poesia trobadorica e d’irradiazione trobadorica ed è stata più volte discussa all’interno del gruppo e inoltre valutata da una commissione internazionale di referees anonimi. L’emendamento mascle (ovvero m’ascle) > mescla mi convinceva poco fin dall’inizio, eppure non ebbi nulla da obiettare e trovai del tutto legittimo che Fratta avanzasse quella proposta, che, ripeto, è tutt’altro che un «despropòsit», come offensivamente si esprime il recensore. Poi mi sono convinto del contrario e l’ho scritto; e se ne è convinto anche Fratta, come ammette senza nessun imbarazzo a p. 128. Tutto ciò rientra nella quotidianità del lavoro scientifico, che deve fondarsi, nella nostra disciplina come in qualsiasi altra, sul confronto e sul continuo dialogo tra i ricercatori. Il lavoro filologico procede per ipotesi, che possono essere confermate, messe in dubbio o smentite. Nessuna edizione critica è definitiva e ogni nuova edizione è sempre indebitata con le precedenti, se affidabili; come lo è anche quella di Fratta nei confronti dell’edizione, senz’altro meritoria, di Riquer e Badia. Detto questo, è del tutto naturale che essa se ne discosti in un certo numero di punti, nel testo come nell’interpretazione, senza che ciò comporti un rapporto conflittuale con i precedenti editori e interpreti, perché i presupposti metodologici possono essere diversi e perché gli strumenti di cui si dispone oggi sono molto più potenti e raffinati di quelli di cui poteva disporre Martí de Riquer negli anni cinquanta e Lola Badia all’inizio degli anni ottanta. Tornando a mascle, non è infondato il sospetto che il recensore, non essendo capace di discutere e criticare in prima persona nemmeno una sola delle ‘divergenze’, sia andato sul sicuro evocandone una già passata al vaglio di altri, che però, disgraziatamente, nell’edizione non c’è.

All’inizio del suo scritto, il recensore riferisce della sua riluttanza ad accettare l’incarico affidatogli dal consiglio di redazione della rivista: «No sóc un especialista en la poesia d’aquest autor i no podia oferir més que la visió d’un medievalista que rep una nova edició crítica d’un poeta i que, lògicament, en té una opinió filològica». Alla fine lo accetta, considerando che «els lectors majoritaris d’aquest llibre seran especialistes en literatura catalana medieval», e non specialisti del poeta, proprio come lui (p. 309). Ragionamento impeccabile, perché non occorre essere uno specialista di un autore medievale per recensirne un’edizione; basta essere un «medievalista» in grado di esprimere la propria «opinió filològica» rivolgendosi ad altri «especialistes en literatura catalana medieval». Temo purtroppo che gli specialisti di letteratura catalana medievale, e non solo catalana, saranno a loro volta in grado di formarsi un’opinione filologica ben precisa non sul libro, ma sul recensore.

 

Costanzo Di Girolamo

Università di Napoli Federico II

iv.2007


 

Caplletra, n. 38 (2005), pp. 309-312