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Libri ricevuti ragionati

Josep Guia, Fraseologia i estil. Enigmes literaris a la València del segle XV, València, 3 i 4, 1999, pp. 362. – ISBN 84-7502-578-1

Josep Guia sostiene la tesi che a Joan Roís de Corella possano essere attribuite alcune opere tradizionalmente assegnate ad altri autori: tra queste, il Tirant lo Blanch (tesi già avanzata in un suo precedente volume: De Martorell a Corella. Descobrint l’autor del «Tirant lo Blanc», Catarroja-Barcelona, Afers, 1996), la Vita Christi e lo Spill.

 

[. . .] les hipòtesis defensades en aquest llibre, contràriament als tòpics usuals sobre un Corella de més en més reclòs, cap a la fi de la seva vida, en la literatura hagiogràfica i piadosa, ens presenten un escriptor que, justament durant els anys 1490-97, descobreix i conrea el llenguatge popular i les obres de caire satíric, literaturitzant fins i tot aquest viratge (La brama dels llauradors, 1490) i produint l’Espill (1490-94, aproximadament), el Col·loqui de dames (vers 1493-94), la major part de Lo procés de les olives i Lo somni de Joan Joan (1496). I tot això, sense perjudici de fer les ‘cobles’ de Lo Passi i de la Vida de santa Magdalena i d’acabar d’enllestir les proses de les dues Vitae Christi. Que, potser, era escriure molt, tot això? Molt més va escriure Ramon Llull i no va tenir una vida tan reposada. D’altra banda, el fet que, del panorama de la literatura catalana de la segona meitat del segle XV, desapareguin uns insòlits autors ficticis en favor de l’emergència d’un gran autor real, el cavaller i mestre en teologia Joan Roís de Corella, no és pas un empobriment d’aquesta literatura, perquè les obres hi són, sinó un enriquiment, ja que les llegirem d’una altra manera, amb tot de referents contextuals que ens permetran un major gaudi i un millor coneiximent d’aquella València, capital cultural d’un renaixement precoç, dissortadament frustrat.  (340-341)

 

Al di là di qualche inutile spunto polemico (Guia, che è un professore di algebra, si presenta come un «investigador d’una altra àrea» che apre nuovi orizzonti agli storici della letteratura, p. 329), il libro non va preso sottogamba, perché tocca una serie di questioni spinose, a cui non sempre è stato possibile dare risposte soddisfacenti. La comunità letteraria valenzana della seconda metà del Quattrocento è ancora da approfondire nei suoi aspetti complessi e spesso contraddittori: si tratta di un mondo relativamente compatto, ma al cui interno convivono poli di attrazione e atteggiamenti in apparenza inconciliabili, come la memoria, perfino nostalgica, del Medioevo romanzo e la seduzione dei nuovi modelli umanistici, l’anonimato o l’autorità debole di molte opere e l’affermazione di una forte autorità autoriale. In questo arco di tempo, poi, cade anche l’introduzione della stampa che, qui come altrove, rivoluziona l’orizzonte letterario. Con questo, voglio dire che a Guia va riconosciuto il merito di avere risollevato problemi tutt’altro che risolti, e da riconsiderare proprio in sede di storia della letteratura e di storia della cultura. Quanto alle soluzioni da lui proposte, è un altro discorso.

Il metodo adottato, definito ‘stilometrico’, mira alla ‘caratterizzazione fraseologica degli stili letterari’, al confronto serrato, cioè, di luoghi paralleli o simili o identici (di «concordances»), che dimostrerebbero la presenza della stessa mano. In realtà, la critica attributiva applicata all’ambito letterario è ancora ben lontana dall’avere prodotto risultati convincenti, e non mi sembra che il saggio di Guia faccia eccezione.

A mo’ di esempio, si prenda il caso delle disperse di Petrarca, a cui ha dedicato molti anni di lavoro uno studioso americano, Joseph A. Barber, prematuramente scomparso. Davanti a un componimento assegnato a Petrarca, si pongono questi problemi: i tratti inconfondibilmente petrarcheschi possono essere dovuti a un buon imitatore (si sa che una firma falsa, l’esatta copia di un’occorrenza particolare della firma di qualcuno, appare spesso più ‘autentica’ di un’altra occorrenza, veramente autentica, della stessa firma); d’altra parte, i tratti non riconducibili a quello stile, a quella mano, possono testimoniare una versione non rifinita, e perciò rifiutata, di una poesia (alcune poesie sicuramente di Petrarca sono abbastanza lontane dallo standard stilistico del Canzoniere). Si dirà che quello di Petrarca è un caso speciale; ma il punto è che la critica attributiva si trova sempre davanti a casi speciali: ogni singolo caso lo è. A ciò si aggiunga che in alcune epoche letterarie esistono delle grammatiche della poesia, come dicevano gli strutturalisti, condivise; e per grammatiche della poesia non si devono intendere solo dei macrostili, come per esempio il grande canto cortese, ma anche lo stile idiosincratico di un autore: un poeta può avere avuto anche un solo imitatore, o due o tre. Per questi motivi, la filologia medievale ha rinunciato da tempo a operazioni attributive fondate esclusivamente su elementi formali.  

La documentazione apportata in questo libro non va certo ignorata né sottovalutata, ma ad essa si possono dare interpretazioni diverse, più sfumate e complesse, rispetto a quelle a cui perentoriamente arriva Guia. Corella rimane una figura centrale, e stilisticamente molto innovativa, nel contesto letterario del suo tempo, e non si può escludere, in via ipotetica, che abbia messo le mani in opere altrui. Ma tutto ciò non sarebbe affatto una novità nel tardo Medioevo europeo, non solo valenzano e catalano. Il problema, allora, non è semplicemente: quale autore? È quello, piuttosto, di considerare la varia autorità degli autori, questione ulteriormente complicata dalla nuova pratica degli allestimenti tipografici. Dietro un’inconfutabile ‘concordanza fraseologica’ si possono nascondere cose ben diverse: la stessa mano o la mano di un farcitore o di un decoratore, ma anche l’effetto dell’angoscia dell’influenza.  [C. Di G.]

 

[iii.2000]     

 

 

 

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