Da Orange a
Beniarjó (passando per Firenze).
Un’interpretazione
degli estramps catalani
Costanzo Di Girolamo Donatella Siviero
La metrica, qualcosa di
apparentemente arido, di tecnico, di poco invitante (per i nostri studenti e, ahimè,
a volte anche per i nostri colleghi), può essere spesso rivelatrice di
insospettati rapporti tra i poeti e perfino tra le tradizioni letterarie, può
servire a collegare fili a prima vista lontani della storia della poesia. La
metrica non fornisce solo la musica, la musicalità, al testo poetico, ma di per
sé significa anche qualcosa o allude a qualcosa: è portatrice di significati,
di un senso. In questo intervento ci occuperemo di una forma metrica abbastanza
curiosa, tipicamente catalana, quella degli estramps. [1]
Si tratta in effetti di una
forma singolare, perché si caratterizza per l’esclusione della rima, e inoltre
per l’adozione obbligatoria, in fine verso, di parole parossitone. La rima,
com’è noto, è alla base della versificazione dei trovatori, da cui discende
direttamente quasi tutta la versificazione romanza d’arte: e per i trovatori,
come teorizzava István Frank, «il n’existe … ni rime sans vers ni vers sans
rime». [2] L’uso, in questo genere metrico, di
versi senza rima non ha niente a che vedere con gli endecasillabi sciolti
italiani, introdotti negli anni venti del sedicesimo secolo (fatta eccezione
per l’esempio isolato, duecentesco, del Mare
amoroso), [3] né con il blank
verse inglese,
introdotto intorno al 1540. I versi senza rima del Cinquecento tentavano di
imitare l’esametro latino dei poemi epici (o, quelli sdruccioli, il trimetro
giambico del teatro), mentre la caratteristica degli estramps consiste nella conservazione della misura strofica e
inoltre in una tipologia particolare dei vocaboli che concludono il verso, che
chiameremo non-rimanti. Per il primo aspetto (la conservazione dello
strofismo), il genere catalano si mantiene fedele alla tradizione trobadorica
(solo alcuni generi non propriamente lirici, come i salutz, hanno forma stichica e non strofica); per il secondo (la
tipologia dei non-rimanti), si richiama a un filone preciso di quella stessa
tradizione, come cercheremo di dimostrare.
La storia e i caratteri degli estramps sono stati ben descritti da Josep Pujol, in un saggio di
una decina di anni fa. [4] La più antica canzone pervenutaci in
questo metro, databile tra il 1390 e il 1401, è Sobre·l pus naut alament de tots quatre di Andreu Febrer, [5] che fu forse l’inventore stesso del genere. Ben noti sono
anche gli estramps di Jordi de Sant Jordi, vissuto tra la
fine del secolo XIV e il 1424, Jus lo
front port vostra bella semblança. [6] Questi due componimenti rappresentano
senz’altro, se non gli unici, i due precedenti più importanti rispetto ai nove estramps di Ausiàs March. [7] Pujol ha
perfettamente ragione quando riconduce questo genere alla linea poetica (e
metrica) fondata da Raimbaut d’Aurenga [8] e proseguita da Arnaut Daniel. [9]
Raimbaut è il primo trovatore a
fare un uso sistematico, in diverse poesie, di parole foneticamente aspre. È
esattamente a questo tipo di parole che sembra riferirsi Dante, nel De vulgari eloquentia, quando contrappone i vocaboli «yrsuta» (ispidi, villosi) a
quelli «pexa» (pettinati):
pexa vocamus illa [vocabula], que
trisillaba vel vicinissima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto
vel circumflexo, sine z vel x duplicibus, sine duarum
liquidarum geminatione vel positione immediate post mutam, dolata quasi,
loquentem cum quadam suavitate relinquunt, ut amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securtate, defesa. Yrsuta
quoque dicimus omnia preter hec, que vel necessaria vel ornativa videntur
vulgaris illustris. (II vii 5-6) [10]
Dante distingue quindi tra
parole villose per necessità (come i monosillabi (sì, no, me, te, ecc.) e per ornamento (parole lunghe
o con combinazioni di consonanti che mancano nei «vocabula pexa»: per esempio, terra, speranza, gravitate, ecc.). In sede di rima, la villosità
è ovviamente da attribuire a fini esclusivamente ornativi, come fa infatti
Raimbaut e come farà, pochi anni dopo il trovatore di Orange, Arnaut Daniel.
All’asprezza fonetica si accompagna poi la rarità delle rime: si tratta quasi
sempre di rime difficili, rare e quindi ‘care’, come si esprimono alcuni
trattati di poetica, al limite dell’unicità; e infatti virtualmente uniche sono
le terminazioni di alcune parole-rima della sestina arnaldiana: sono quelle che
Jaume March, nel Libre de concordances (1371), definisce «rims de fènix». [11]
L’iniziatore di questa
sperimentazione ad oltranza sul tessuto fonico della lingua sembra dunque
essere stato Raimbaut d’Aurenga, forse preceduto o emulato dal suo
contemporaneo Giraut de Bornelh. [12] Si diffonde,
allo stesso tempo, la moda delle coblas
dissoludas o estrampas nel senso proprio del termine (nessun vocabolo in rima, o
rimante, ha il suo compagno nella stanza, ma lo trova nelle stanze successive),
una tecnica che anticipa in qualche modo gli estramps catalani: chi ascolta percepisce la
rima solo a distanza di parecchi versi e l’effetto della rima è di fatto
attenuato. E si infittisce anche la pratica, già introdotta da Marcabru, [13] di creare collegamenti fonici tra i distinti rimanti, con
vari procedimenti (per esempio ricorrendo alla cosiddetta rima derivativa: enversa :: enverse; o a semplici assonanze: berca :: pesca). Con la sestina di Arnaut [14] si consolida la predilezione per le rime difficili
parossitone con accumulo di consonanti (intra, ongla, arma, verga, oncle, cambra) e per le parole bisillabiche; si
accentua anche una certa pregnanza o eccentricità semantica dei rimanti: se la cambra è, come è stato detto, la stanza del desiderio, l’ongla rimanda a una fisicità esasperata. Entrambi questi
trovatori portano cioè all’estremo limite la tecnica dei rims dictionals, una categoria di rime che chiama in causa la parola (dictio) nel suo complesso, non solo la sua terminazione: all’acordansa si sostituisce il gioco verbale, l’aequivocatio, la ripetizione pura e semplice di significante e di
significato.
È superfluo ricordare che
l’opera e il personaggio stesso di Arnaut Daniel godettero nei secoli XIII e
XIV di un’enorme fortuna, documentata anche nei Paesi catalani; ma non minore
fortuna, a giudicare dal grande numero di componimenti sopravvissuti, dovette
toccare a Raimbaut. Ora, se leggiamo con attenzione gli estramps di Febrer, è impossibile non riconoscere nei suoi
non-rimanti, la tradizione che lo precede:
I |
quatre, roda, tempre, apercebre, pença,
contendre, força, quatorsa |
II |
movibles, spera, fabra, orde, regna, Venus,
senyoreja, occupa, Saturnus |
III |
natura, visque, acordança, planeta, face, bona,
causativa, segle, forma |
IV |
guerra, sobrevesta, regines, Lampheto, Sinope,
Pantasilea, mundana, scrites, femenina |
V |
spandre, tancha, Uzerna, Caspis, freda, aspra,
granda, senyoria, comperades |
VI |
parelhas, cossistori, gasanya, eclipsa, muda,
sobremunta, cuberta, tralha, erba |
VII |
fortunada, fortuna, benigna, tira, abaxa,
enfoscha, linatge, Sepulcre, naturalesa |
VIII |
Trinacle, vanguarda, fama, Mahoma, secta |
IX |
becedari, adorni, bocha, digna, biaxi |
Come si vede,
su 73 versi, un buon numero di parole si presentano come foneticamente villose;
altre sono rare o preziose; abbondano i nomi di persona o di luogo (molto
frequenti in Arnaut). Al v. 39, Uzerna («les palus d’Uzerna»), come già
rilevato da Riquer, dipende direttamente da un rimante, e da un intero
sintagma, di Arnaut Daniel. [15]
Esaminiamo adesso i non-rimanti
della canzone di Jordi de Sant Jordi:
I |
semblança, festa, figura, empremta, forma, segle,
sepulcre, signe |
II |
retaula,
himatges, partre, environa, sercle, enrama, contemple, penetra |
III |
carçre,
coffre, dintre, encontre, ferma, angoxa, torres, colomba |
IV |
noble,
totas, pedra, stella, flota, carvoncles, passa, esmirle |
V |
ascla,
homens, obre, arma, Aristotills, desferma, setla, ungla |
VI |
delicte, dona, peresca, afferma, arbres, ombra, cambra,
visque |
VII |
timbre, registre, revida, Pantasilea |
Molto più
palesi sono qui gli echi dalla sestina: Riquer e Badia evidenziano,
giustamente, arma, cambra e ungla, a cui si può forse aggiungere anche ferma, che, riferito a amor (v. 21, «car tant es gran l’amor
que·us ay e ferma»), ricorda il ferm
voler; [16] e fanno anche osservare che ben nove versi terminano con
parole che Jaume March considera «rims de fènix»: cambra, noble, cel·la, ungla, sepulcre, cofre, Aristotil, cercle, timbre. [17] A queste va
aggiunta, come ricorda Pujol, [18] colomba, un rimante, non fènix, utilizzato dallo stesso March in uno
dei frammenti in versi inseriti nel suo libro e nel Pròleg (qui si parla dello Spirito Santo come di «colomba, / ausell
suau e pur ab blanxa plomba»; [19] in Jordi,
della dama come una «blanxa colomba»). A dire la verità, colomba compare anche in Arnaut Daniel, due volte, una volta nella
celebre canzone, menzionata nel De
vulgari eloquentia, Si·m fos Amor de joi donar tan larga: [20] potrebbe
essere una semplice coincidenza (le colombe sono volatili abbastanza comuni),
senonché essa spunta nella stessa strofe in cui compare anche festa, [21] altro rimante arnaldiano mutuato dal
poeta catalano.
Fin qui, tutto quadra alla
perfezione: sia Febrer che Jordi si rifanno alla linea del trobar ric o car di Raimbaut e di Arnaut, sicché è più
che ovvia qualche reminiscenza, soprattutto dal trovatore di Ribérac. Ed è
anche abbastanza ovvio il ricorso alla manualistica corrente, il rimario di
Mossèn Jaume. Tutto questo è verissimo e incontrovertibile, ma forse le cose
sono leggermente più complicate. Anzitutto, se compariamo le due tabelle di
non-rimanti, osserveremo subito che Jordi, come già notato da Pujol, [22] riprende cinque parole da Febrer: segle, sepulcre (entrambe già in Jaume March), [23] forma, visque e Pantasilea. Sorge a questo punto il fondato
sospetto che Jordi citi non solo Arnaut Daniel ma anche il poeta di Vic, più
anziano di lui di una ventina d’anni. Del resto, la famosa unghia della sestina
era stata rimessa in circolazione proprio da Febrer in un’altra canzone di
stile arnaldiano, Combas e valhs, puigs
muntanyes e colhs [24] (datata da Riquer tra il 1392 e il
1396), di cui elenchiamo le parole in rima (ungla è parola-rima o mot refranh):
I |
colhs,
neus, rams, grops, temps, mut, crits, ungla |
II |
folhs,
seus, stramps, lops, ensemps, drut, dits, ungla |
III |
molhs,
veus, Edams, Jobs, rems, resemut, stablitz, ungla |
IV |
rebolhs,
breus, fams, glops, strems, desconegut, ditz, ungla |
V |
genolhs,
feus, reclams, obs, Jerusalem, abatut, esperitz, ungla |
VI |
entretostemps, maltengut, dits, ungla |
VII |
temps, temut, vestitz, ungla |
Oltre a ungla, sono anche rimanti arnaldiani stramps (al femminile nel perigordino: estrampa), Jerusalem e, in due incipit, temps e crits. [25]
Torniamo ora ai non-rimanti di
Jordi, che comprendono parole-rima o parole in rima di Arnaut e di Febrer, e
inoltre vocaboli tratti dal Diccionari di March, che non è detto siano, o
siano tutte, di sua invenzione. [26] Comprendono,
per la verità, anche diverse autocitazioni da altre sue poesie: figura, segle, signe (signes), retaula (retaules), enrama (rama, nello stile di ongla : enongla), noble (nobles). [27] Insomma, si
ha l’impressione che sia una canzone fondata su citazioni autorevoli (modestia
a parte, nel caso delle autocitazioni). Se siamo sulla buona pista, questo ci
spinge a cercare ancora in direzioni contigue. Per esempio, a cercare
nell’altra grande sestina medievale dopo quella di Arnaut, la sestina di Dante,
inclusa nel breve ciclo delle quattro canzoni cosiddette petrose, di chiara
ispirazione arnaldiana. [28] Negli estramps di Jordi compaiono tre non-rimanti presi di peso appunto
dalla sestina Al poco giorno e al gran
cerchio d’ombra: sono le
parole pedra, dona e ombra (ma petra e donna compaiono sistematicamente in tutte e
quattro le petrose; ombra anche in Io son venuto al punto della rota). Ci pare ragionevole escludere nella
maniera più radicale che ciò possa essere dovuto al puro caso o all’inconscio
letterario del poeta, che, comunque, doveva conoscere bene Dante.
E Febrer? È sorprendente che
anche nei suoi estramps affiorino altri quattro rimanti
danteschi, attinti ancora una volta al ciclo delle petrose: roda, aspra (al maschile nel fiorentino), erba, freda (anche questa al maschile). I primi
due sono esibiti in rima nell’incipit di due canzoni (Io son venuto al punto de la rota, Così
nel mio parlar voglio esser aspro); il terzo, erba, è una parola-rima della sestina e una
parola in rima di Io son venuto; il quarto compare ben quattordici
volte nella canzone a tutte rime equivoche, o equivoche-identiche, Amor, tu vedi ben che questa donna. E una parola-rima della sestina è
anche colhs (colli), la prima parola in rima dell’altra
canzone di Febrer che abbiamo prima ricordato; si aggiunga, riguardo ancora a
questa canzone, che temps, se è un rimante arnaldiano, è
ugualmente dantesco: tempo è rima equivoca in Io son venuto (due occorrenze), ed è un altro dei cinque rimanti
equivoci-identici di Amor tu vedi ben (quattordici occorrenze). Osserviamo
di passaggio che se è vero che Combas
e valhs evoca il
paesaggio glaciale della canzone rambaldiana della flors enversa, [29] non meno ricorda lo scenario
invernale, desolato e nebbioso, delle petrose dantesche.
* * *
Davanti a questi riscontri
oggettivi, passati finora in gran parte inosservati, si può tentare qualche
ipotesi. Anzitutto che Febrer, se è lui l’inventore del genere, abbia mescolato
dei «rims de fènix» con rime autorevoli, cioè con rime riprese da altri poeti:
non tutte le rime di Febrer, infatti, sono rime uniche o rare, e alcune sono
perfino rime facili. Ora, mentre noi possiamo riconoscere senza troppa
difficoltà le rime fènix, o le rime villose, la nostra capacità
di individuare le rime autorevoli si basa su quel poco che è sopravvissuto
della lirica medievale, e in particolare di quella provenzale e catalana: è
opinione comune che il corpus estante non sia che una frazione minima della
produzione originaria. In via del tutto ipotetica, e con molta cautela, si
potrebbe perfino pensare che tutti i non-rimanti di Febrer siano rimanti
d’autore, dal primo all’ultimo. È quanto lascerebbero sospettare gli estramps di Jordi, in cui i rimanti d’autore riconoscibili sono in
numero assai maggiore. Lo stesso si può dire per gran parte degli estramps del secolo XV, con un’unica notevole eccezione: gli estramps di Ausiàs March.
Comincia a questo punto a
trapelare qualche luce su questo strano genere metrico, di stretta osservanza
trobadorica, che ignora la rima. O che forse non la ignora: forse la rima c’è, in absentia, come avrebbero detto gli strutturalisti. La maggior parte
dei non-rimanti rima, per così dire, con rimanti (parole in rima e parole-rima)
assenti nella stanza e nell’intero componimento, ma ben presenti nella memoria
letteraria del poeta e del suo pubblico. Se questa chiave di lettura è
corretta, sarebbe perfino giustificata la denominazione del genere, che ha
posto sempre dei problemi. Come abbiamo già accennato, per rim estramp, salvo che in un passaggio di Arnaut Daniel, dove
l’aggettivo non ha ancora un valore tecnico, [30] l’antica
manualistica intende la rima isolata nella stanza, ma che trova le sue compagne
nelle stanze seguenti: [31] per i versi senza rima si parlava
invece di rims espars o bruts. [32] L’espressione estrampa, con riferimento al genere metrico,
compare per la prima volta nel Torcimany di Lluís d’Averçó [33] (datato dubitativamente da Riquer all’ultimo terzo del
secolo XIV); [34] l’unica altra attestazione del termine
è nelle rubriche del Cançoner de París (fine del secolo XV), che ospita un
piccolo numero di componimenti in estramps: [35]
ma la distanza di circa un
secolo tra queste due attestazioni lascia pensare che l’espressione abbia avuto
costantemente la stessa accezione in area catalana. Nel momento in cui sorse la
necessità di designare un nuovo genere, basato non sulla soppressione pura e
semplice della rima, ma sul rinvio, sistematico o frequente, a rimanti
autorevoli, è comprensibile che il termine estramp si imponesse su espars o brut. Come i rims estramps dei trovatori rimano altrove nella canzone e non nella cobla, così gli estramps dei catalani rimano, idealmente, in un
altrove che è dato dall’intera tradizione cortese, o meglio da un filone
particolare della lirica di ispirazione trobadorica, quello che da Raimbaut e
Arnaut arriva fino a Dante e fino agli arnaldiani delle ultime generazioni (per
Jordi, fino a Febrer).
Gli estramps catalani sarebbero dunque, in qualche modo, una sorta di
canzoni cum auctoritate, cioè farcite di citazioni. Nei
modelli più autorevoli di questo microgenere (quelli del troviere Gilles de
Vieux-Maisons, di Jofre de Foixa e di Petrarca), era inserito un verso altrui
alla fine di ogni stanza. [36]
L’innovazione di Febrer è consistita nel citare non dei versi famosi, bensì dei
rimanti famosi, in un gioco di sollecitazione e di provocazione della
competenza letteraria del suo pubblico che è anche alla base della Passio Amoris di Jordi de Sant Jordi, un poemetto non strofico, quasi un
centone, che include, entro un’esile cornice allegorico-narrativa, numerose
citazioni liriche. [37]
Tuttavia, nemmeno l’ipotesi
delle rime autorevoli, o di una mescolanza di rime autorevoli e rime fènix o villose, serve a spiegare tutto. Occorreva comunque
qualche precedente prestigioso per trasformare quello che era considerato un
grave difetto (i rims espars o bruts) in una ricercatezza tecnica. E il
precedente prestigioso può essere trovato proprio in uno degli auctores volgari che i due poeti catalani citano. Dante non fu il
primo, in Italia, a introdurre la rima completamente irrelata, che era
abbastanza diffusa tra i lirici del Duecento, in particolare tra i
Siculo-toscani. [38] È però possibile che Febrer
attribuisse a Dante questa tecnica per lui assolutamente rara e così poco in
sintonia con la versificazione dei trovatori: in Lo doloroso amor che mi conduce, [39] due versi
per ogni stanza sono privi di rima; e anche nel congedo di una petrosa, Così nel mio parlar voglio esser aspro, il primo verso non rima, terminando
con una parola-chiave, donna, benché in quest’ultimo caso l’assenza
di rima dipenda da ragioni di ordine strofico. La rima irrelata italiana è un rim dictional allo stato puro, una parola da prendere nella sua globalità
e non solo per la sua terminazione. È forse proprio questo il precedente
illustre che Febrer poteva avere in mente, tanto autorevole da indurlo a
estendere la stessa tecnica a un’intera canzone. [40]
Ma l’esperimento avanguardistico
di Febrer, perfezionato sicuramente da Jordi, non poteva ripetersi
all’infinito. I continuatori quattrocenteschi degli estramps si servono di un rimario (di un non-rimario, dovremmo dire)
ormai codificato e ripetitivo. Immancabili sono parole come sepulcre, cambra, segle, ungla, carçre e così via, a cui si mescolano
non-rimanti del tutto banali, come per esempio, anche nel raffinatissimo
Corella, luna, humanes, veure, vida, perfino il verbo sia e l’aggettivo possessivo mia… [41]
Un caso a parte è quello di
Ausiàs March. Alcuni non-rimanti allusivi alla tradizione del genere compaiono anche
in March, su questo non c’è dubbio; ma essi affiorano con un grado tale di
diluizione che è impossibile affiancare i suoi estramps a quelli dei suoi contemporanei. Nei suoi estramps, tra cui si annovera anche il Cant espiritual, il poeta utilizza generalmente come terminali di verso
parole nelle quali la vocale tonica è preceduta o seguita da due o tre
consonanti: ma non si tratta di una regola fissa né di qualcosa di
particolarmente percepibile da parte dei lettori, abituati a ben altre asperità
nella poesia del signore di Beniarjó. Questo rientra perfettamente nel
comportamento metrico di March. In apparenza, March non è un grande innovatore
di forme metriche: la sua rivoluzione consiste nell’adozione della lingua
nativa, e non più del provenzale, come lingua della poesia; nella fondazione di
una poetica dichiaratamente a basso grado di letterarietà, che rompe con la
tradizione; e nella messa in crisi dei generi medievali. March sembra inoltre
invertire la tendenza della lirica d’ispirazione trobadorica, e in
fondo degli stessi trovatori, a esibire le proprie fonti, fino al caso estremo
della citazione; e sono nel complesso relativamente poche le riprese
percepibili dai suoi predecessori. Istruttivi i casi in cui si ha la quasi
certezza di potere individuare una fonte: il poeta la rielabora e la stravolge
fino a renderla irriconoscibile. In ciò, la sua opera segna una netta frattura
nei confronti delle poetiche medievali, incentrate su forme molto spinte di
intertestualità. March non avrebbe mai fatto proprio un genere cum auctoritate (l’auctor è lui!), se non dopo averlo privato dei suoi caratteri
distintivi, se non dopo averlo completamente integrato alla sua maniera.
* * *
Solo qualche ultima
considerazione, per concludere. La lirica catalana del secolo XIV e dei primi
del XV è stata sempre descritta in termini abbastanza riduttivi: si è parlato
di poesia degli epigoni. In realtà, non mancano forti innovazioni e punte di
sperimentalismo, come dimostrano non solo gli immediati predecessori di Ausiàs
March, ma anche altri poeti del Trecento. Tutta la lirica catalana medievale
andrebbe nuovamente studiata, con rinnovati strumenti e senza i vecchi
preconcetti. Da quanto abbiamo visto, al tradizionale repertorio di fonti e di
modelli (i trovatori e alcuni trovieri, ma anche Petrarca) va aggiunto, a pieno
titolo, Dante. Da quest’angolo d’Europa in cui ora ci troviamo, potrebbe
sembrare del tutto ovvio che un autore come Dante abbia sempre irradiato la sua
influenza, e che questa influenza sia arrivata, semmai con un po’ di ritardo,
in terra iberica; ma la verità è che la poesia di Dante non è mai stata presa a
modello in Italia: assai poco la Commedia, per nulla la sua lirica. Altrettanto
ovvio potrebbe sembrare che in Jordi, e non solo in Jordi, siano presenti
vistosi echi di Petrarca, mentre il petrarchismo si affermerà pienamente in
Italia solo verso la fine del Quattrocento.
Dante, tuttavia, non è solo una tessera in più che si
aggiunge al mosaico delle conoscenze letterarie dei catalani. La sua presenza
alla fine del secolo XIV rivela anzitutto un ambiente letterario curioso e
aperto ai nuovi classici volgari, un ambiente che però non insegue le mode,
perché Dante, sia in Italia che nel resto d’Europa, non era di moda; essa
inoltre potrebbe avere causato, di lì a poco, importanti conseguenze. Si è a
lungo discusso sui motivi della svolta linguistica di March. Una spiegazione può essere trovata
proprio nella circolazione in area catalana dei nuovi classici volgari,
soprattutto italiani, la cui diffusione avrà messo gradualmente in crisi una
lingua letteraria, il provenzale catalanizzato, che doveva essere ormai sentita
come convenzionale e improduttiva. Dall’Italia insomma viene l’esempio che
anche un nuovo volgare, un volgare con credenziali meno prestigiose del
provenzale, può servire come grandioso veicolo della lirica e, più in generale,
di ogni forma di poesia. In tutto questo, determinante deve essere stato il
ruolo del poeta di Vic, che fu forse la vera eminenza grigia della poesia
catalana per più di trent’anni: noi abbiamo pochi dubbi che alla base degli
echi danteschi in Jordi ci sia la mediazione di Febrer; come ci sembra
pressoché certo che March nel suo canzoniere echeggi più volte la Commedia, e più esattamente la
traduzione febreriana, completata nel 1429. [42]
Come si vede, lo studio della versificazione può a volte
fornire piccole spie che alla fine ci aiutano a comprendere meglio momenti
cruciali della storia letteraria. Dal canto nostro, speriamo di avere gettato
qualche nuova luce su un genere metrico singolare, unico in Europa.
Pubblicato
in Revue d’études catalanes, n. 2, 1999, pp. 81-95.