Da Orange a Beniarjó (passando per Firenze).

Un’interpretazione degli estramps catalani

Costanzo Di Girolamo   Donatella Siviero

 

 

 

 

 

La metrica, qualcosa di apparentemente arido, di tecnico, di poco invitante (per i nostri studenti e, ahimè, a volte anche per i nostri colleghi), può essere spesso rivelatrice di insospettati rapporti tra i poeti e perfino tra le tradizioni letterarie, può servire a collegare fili a prima vista lontani della storia della poesia. La metrica non fornisce solo la musica, la musicalità, al testo poetico, ma di per sé significa anche qualcosa o allude a qualcosa: è portatrice di significati, di un senso. In questo intervento ci occuperemo di una forma metrica abbastanza curiosa, tipicamente catalana, quella degli estramps. [1]

Si tratta in effetti di una forma singolare, perché si caratterizza per l’esclusione della rima, e inoltre per l’adozione obbligatoria, in fine verso, di parole parossitone. La rima, com’è noto, è alla base della versificazione dei trovatori, da cui discende direttamente quasi tutta la versificazione romanza d’arte: e per i trovatori, come teorizzava István Frank, «il n’existe … ni rime sans vers ni vers sans rime». [2] L’uso, in questo genere metrico, di versi senza rima non ha niente a che vedere con gli endecasillabi sciolti italiani, introdotti negli anni venti del sedicesimo secolo (fatta eccezione per l’esempio isolato, duecentesco, del Mare amoroso), [3] né con il blank verse inglese, introdotto intorno al 1540. I versi senza rima del Cinquecento tentavano di imitare l’esametro latino dei poemi epici (o, quelli sdruccioli, il trimetro giambico del teatro), mentre la caratteristica degli estramps consiste nella conservazione della misura strofica e inoltre in una tipologia particolare dei vocaboli che concludono il verso, che chiameremo non-rimanti. Per il primo aspetto (la conservazione dello strofismo), il genere catalano si mantiene fedele alla tradizione trobadorica (solo alcuni generi non propriamente lirici, come i salutz, hanno forma stichica e non strofica); per il secondo (la tipologia dei non-rimanti), si richiama a un filone preciso di quella stessa tradizione, come cercheremo di dimostrare.

La storia e i caratteri degli estramps sono stati ben descritti da Josep Pujol, in un saggio di una decina di anni fa. [4] La più antica canzone pervenutaci in questo metro, databile tra il 1390 e il 1401, è Sobre·l pus naut alament de tots quatre di Andreu Febrer, [5] che fu forse l’inventore stesso del genere. Ben noti sono anche gli estramps di Jordi de Sant Jordi, vissuto tra la fine del secolo XIV e il 1424, Jus lo front port vostra bella semblança. [6] Questi due componimenti rappresentano senz’altro, se non gli unici, i due precedenti più importanti rispetto ai nove estramps di Ausiàs March. [7] Pujol ha perfettamente ragione quando riconduce questo genere alla linea poetica (e metrica) fondata da Raimbaut d’Aurenga [8] e proseguita da Arnaut Daniel. [9]

Raimbaut è il primo trovatore a fare un uso sistematico, in diverse poesie, di parole foneticamente aspre. È esattamente a questo tipo di parole che sembra riferirsi Dante, nel De vulgari eloquentia, quando contrappone i vocaboli «yrsuta» (ispidi, villosi) a quelli «pexa» (pettinati):

 

pexa vocamus illa [vocabula], que trisillaba vel vicinissima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto vel circumflexo, sine z vel x duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione vel positione immediate post mutam, dolata quasi, loquentem cum quadam suavitate relinquunt, ut amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securtate, defesa. Yrsuta quoque dicimus omnia preter hec, que vel necessaria vel ornativa videntur vulgaris illustris. (II vii 5-6) [10]

 

Dante distingue quindi tra parole villose per necessità (come i monosillabi (, no, me, te, ecc.) e per ornamento (parole lunghe o con combinazioni di consonanti che mancano nei «vocabula pexa»: per esempio, terra, speranza, gravitate, ecc.). In sede di rima, la villosità è ovviamente da attribuire a fini esclusivamente ornativi, come fa infatti Raimbaut e come farà, pochi anni dopo il trovatore di Orange, Arnaut Daniel. All’asprezza fonetica si accompagna poi la rarità delle rime: si tratta quasi sempre di rime difficili, rare e quindi ‘care’, come si esprimono alcuni trattati di poetica, al limite dell’unicità; e infatti virtualmente uniche sono le terminazioni di alcune parole-rima della sestina arnaldiana: sono quelle che Jaume March, nel Libre de concordances (1371), definisce «rims de fènix». [11]

L’iniziatore di questa sperimentazione ad oltranza sul tessuto fonico della lingua sembra dunque essere stato Raimbaut d’Aurenga, forse preceduto o emulato dal suo contemporaneo Giraut de Bornelh. [12] Si diffonde, allo stesso tempo, la moda delle coblas dissoludas o estrampas nel senso proprio del termine (nessun vocabolo in rima, o rimante, ha il suo compagno nella stanza, ma lo trova nelle stanze successive), una tecnica che anticipa in qualche modo gli estramps catalani: chi ascolta percepisce la rima solo a distanza di parecchi versi e l’effetto della rima è di fatto attenuato. E si infittisce anche la pratica, già introdotta da Marcabru, [13] di creare collegamenti fonici tra i distinti rimanti, con vari procedimenti (per esempio ricorrendo alla cosiddetta rima derivativa: enversa :: enverse; o a semplici assonanze: berca :: pesca). Con la sestina di Arnaut [14] si consolida la predilezione per le rime difficili parossitone con accumulo di consonanti (intra, ongla, arma, verga, oncle, cambra) e per le parole bisillabiche; si accentua anche una certa pregnanza o eccentricità semantica dei rimanti: se la cambra è, come è stato detto, la stanza del desiderio, l’ongla rimanda a una fisicità esasperata. Entrambi questi trovatori portano cioè all’estremo limite la tecnica dei rims dictionals, una categoria di rime che chiama in causa la parola (dictio) nel suo complesso, non solo la sua terminazione: all’acordansa si sostituisce il gioco verbale, l’aequivocatio, la ripetizione pura e semplice di significante e di significato.

È superfluo ricordare che l’opera e il personaggio stesso di Arnaut Daniel godettero nei secoli XIII e XIV di un’enorme fortuna, documentata anche nei Paesi catalani; ma non minore fortuna, a giudicare dal grande numero di componimenti sopravvissuti, dovette toccare a Raimbaut. Ora, se leggiamo con attenzione gli estramps di Febrer, è impossibile non riconoscere nei suoi non-rimanti, la tradizione che lo precede:

 

I

quatre, roda, tempre, apercebre, pença, contendre, força, quatorsa

II

movibles, spera, fabra, orde, regna, Venus, senyoreja, occupa, Saturnus

III

natura, visque, acordança, planeta, face, bona, causativa, segle, forma

IV

guerra, sobrevesta, regines, Lampheto, Sinope, Pantasilea, mundana, scrites, femenina

V

spandre, tancha, Uzerna, Caspis, freda, aspra, granda, senyoria, comperades

VI

parelhas, cossistori, gasanya, eclipsa, muda, sobremunta, cuberta, tralha, erba

VII

fortunada, fortuna, benigna, tira, abaxa, enfoscha, linatge, Sepulcre, naturalesa

VIII

Trinacle, vanguarda, fama, Mahoma, secta

IX

becedari, adorni, bocha, digna, biaxi

 

Come si vede, su 73 versi, un buon numero di parole si presentano come foneticamente villose; altre sono rare o preziose; abbondano i nomi di persona o di luogo (molto frequenti in Arnaut). Al v. 39, Uzerna («les palus d’Uzerna»), come già rilevato da Riquer, dipende direttamente da un rimante, e da un intero sintagma, di Arnaut Daniel. [15]

Esaminiamo adesso i non-rimanti della canzone di Jordi de Sant Jordi:

 

I

semblança, festa, figura, empremta, forma, segle, sepulcre, signe

II

retaula, himatges, partre, environa, sercle, enrama, contemple, penetra

III

carçre, coffre, dintre, encontre, ferma, angoxa, torres, colomba

IV

noble, totas, pedra, stella, flota, carvoncles, passa, esmirle

V

ascla, homens, obre, arma, Aristotills, desferma, setla, ungla

VI

delicte, dona, peresca, afferma, arbres, ombra, cambra, visque

VII

timbre, registre, revida, Pantasilea

 

Molto più palesi sono qui gli echi dalla sestina: Riquer e Badia evidenziano, giustamente, arma, cambra e ungla, a cui si può forse aggiungere anche ferma, che, riferito a amor (v. 21, «car tant es gran l’amor que·us ay e ferma»), ricorda il ferm voler; [16] e fanno anche osservare che ben nove versi terminano con parole che Jaume March considera «rims de fènix»: cambra, noble, cel·la, ungla, sepulcre, cofre, Aristotil, cercle, timbre. [17] A queste va aggiunta, come ricorda Pujol, [18] colomba, un rimante, non fènix, utilizzato dallo stesso March in uno dei frammenti in versi inseriti nel suo libro e nel Pròleg (qui si parla dello Spirito Santo come di «colomba, / ausell suau e pur ab blanxa plomba»; [19] in Jordi, della dama come una «blanxa colomba»). A dire la verità, colomba compare anche in Arnaut Daniel, due volte, una volta nella celebre canzone, menzionata nel De vulgari eloquentia, Si·m fos Amor de joi donar tan larga: [20] potrebbe essere una semplice coincidenza (le colombe sono volatili abbastanza comuni), senonché essa spunta nella stessa strofe in cui compare anche festa, [21] altro rimante arnaldiano mutuato dal poeta catalano.

Fin qui, tutto quadra alla perfezione: sia Febrer che Jordi si rifanno alla linea del trobar ric o car di Raimbaut e di Arnaut, sicché è più che ovvia qualche reminiscenza, soprattutto dal trovatore di Ribérac. Ed è anche abbastanza ovvio il ricorso alla manualistica corrente, il rimario di Mossèn Jaume. Tutto questo è verissimo e incontrovertibile, ma forse le cose sono leggermente più complicate. Anzitutto, se compariamo le due tabelle di non-rimanti, osserveremo subito che Jordi, come già notato da Pujol, [22] riprende cinque parole da Febrer: segle, sepulcre (entrambe già in Jaume March), [23] forma, visque e Pantasilea. Sorge a questo punto il fondato sospetto che Jordi citi non solo Arnaut Daniel ma anche il poeta di Vic, più anziano di lui di una ventina d’anni. Del resto, la famosa unghia della sestina era stata rimessa in circolazione proprio da Febrer in un’altra canzone di stile arnaldiano, Combas e valhs, puigs muntanyes e colhs [24] (datata da Riquer tra il 1392 e il 1396), di cui elenchiamo le parole in rima (ungla è parola-rima o mot refranh):

 

I

colhs, neus, rams, grops, temps, mut, crits, ungla

II

folhs, seus, stramps, lops, ensemps, drut, dits, ungla

III

molhs, veus, Edams, Jobs, rems, resemut, stablitz, ungla

IV

rebolhs, breus, fams, glops, strems, desconegut, ditz, ungla

V

genolhs, feus, reclams, obs, Jerusalem, abatut, esperitz, ungla

VI

entretostemps, maltengut, dits, ungla

VII

temps, temut, vestitz, ungla

 

Oltre a ungla, sono anche rimanti arnaldiani stramps (al femminile nel perigordino: estrampa), Jerusalem e, in due incipit, temps e crits. [25]

Torniamo ora ai non-rimanti di Jordi, che comprendono parole-rima o parole in rima di Arnaut e di Febrer, e inoltre vocaboli tratti dal Diccionari di March, che non è detto siano, o siano tutte, di sua invenzione. [26] Comprendono, per la verità, anche diverse autocitazioni da altre sue poesie: figura, segle, signe (signes), retaula (retaules), enrama (rama, nello stile di ongla : enongla), noble (nobles). [27] Insomma, si ha l’impressione che sia una canzone fondata su citazioni autorevoli (modestia a parte, nel caso delle autocitazioni). Se siamo sulla buona pista, questo ci spinge a cercare ancora in direzioni contigue. Per esempio, a cercare nell’altra grande sestina medievale dopo quella di Arnaut, la sestina di Dante, inclusa nel breve ciclo delle quattro canzoni cosiddette petrose, di chiara ispirazione arnaldiana. [28] Negli estramps di Jordi compaiono tre non-rimanti presi di peso appunto dalla sestina Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra: sono le parole pedra, dona e ombra (ma petra e donna compaiono sistematicamente in tutte e quattro le petrose; ombra anche in Io son venuto al punto della rota). Ci pare ragionevole escludere nella maniera più radicale che ciò possa essere dovuto al puro caso o all’inconscio letterario del poeta, che, comunque, doveva conoscere bene Dante.

E Febrer? È sorprendente che anche nei suoi estramps affiorino altri quattro rimanti danteschi, attinti ancora una volta al ciclo delle petrose: roda, aspra (al maschile nel fiorentino), erba, freda (anche questa al maschile). I primi due sono esibiti in rima nell’incipit di due canzoni (Io son venuto al punto de la rota, Così nel mio parlar voglio esser aspro); il terzo, erba, è una parola-rima della sestina e una parola in rima di Io son venuto; il quarto compare ben quattordici volte nella canzone a tutte rime equivoche, o equivoche-identiche, Amor, tu vedi ben che questa donna. E una parola-rima della sestina è anche colhs (colli), la prima parola in rima dell’altra canzone di Febrer che abbiamo prima ricordato; si aggiunga, riguardo ancora a questa canzone, che temps, se è un rimante arnaldiano, è ugualmente dantesco: tempo è rima equivoca in Io son venuto (due occorrenze), ed è un altro dei cinque rimanti equivoci-identici di Amor tu vedi ben (quattordici occorrenze). Osserviamo di passaggio che se è vero che Combas e valhs evoca il paesaggio glaciale della canzone rambaldiana della flors enversa, [29] non meno ricorda lo scenario invernale, desolato e nebbioso, delle petrose dantesche.

 

*  *  *

 

Davanti a questi riscontri oggettivi, passati finora in gran parte inosservati, si può tentare qualche ipotesi. Anzitutto che Febrer, se è lui l’inventore del genere, abbia mescolato dei «rims de fènix» con rime autorevoli, cioè con rime riprese da altri poeti: non tutte le rime di Febrer, infatti, sono rime uniche o rare, e alcune sono perfino rime facili. Ora, mentre noi possiamo riconoscere senza troppa difficoltà le rime fènix, o le rime villose, la nostra capacità di individuare le rime autorevoli si basa su quel poco che è sopravvissuto della lirica medievale, e in particolare di quella provenzale e catalana: è opinione comune che il corpus estante non sia che una frazione minima della produzione originaria. In via del tutto ipotetica, e con molta cautela, si potrebbe perfino pensare che tutti i non-rimanti di Febrer siano rimanti d’autore, dal primo all’ultimo. È quanto lascerebbero sospettare gli estramps di Jordi, in cui i rimanti d’autore riconoscibili sono in numero assai maggiore. Lo stesso si può dire per gran parte degli estramps del secolo XV, con un’unica notevole eccezione: gli estramps di Ausiàs March.

Comincia a questo punto a trapelare qualche luce su questo strano genere metrico, di stretta osservanza trobadorica, che ignora la rima. O che forse non la ignora: forse la rima c’è, in absentia, come avrebbero detto gli strutturalisti. La maggior parte dei non-rimanti rima, per così dire, con rimanti (parole in rima e parole-rima) assenti nella stanza e nell’intero componimento, ma ben presenti nella memoria letteraria del poeta e del suo pubblico. Se questa chiave di lettura è corretta, sarebbe perfino giustificata la denominazione del genere, che ha posto sempre dei problemi. Come abbiamo già accennato, per rim estramp, salvo che in un passaggio di Arnaut Daniel, dove l’aggettivo non ha ancora un valore tecnico, [30] l’antica manualistica intende la rima isolata nella stanza, ma che trova le sue compagne nelle stanze seguenti: [31] per i versi senza rima si parlava invece di rims espars o bruts. [32] L’espressione estrampa, con riferimento al genere metrico, compare per la prima volta nel Torcimany di Lluís d’Averçó [33] (datato dubitativamente da Riquer all’ultimo terzo del secolo XIV); [34] l’unica altra attestazione del termine è nelle rubriche del Cançoner de París (fine del secolo XV), che ospita un piccolo numero di componimenti in estramps: [35] ma la distanza di circa un secolo tra queste due attestazioni lascia pensare che l’espressione abbia avuto costantemente la stessa accezione in area catalana. Nel momento in cui sorse la necessità di designare un nuovo genere, basato non sulla soppressione pura e semplice della rima, ma sul rinvio, sistematico o frequente, a rimanti autorevoli, è comprensibile che il termine estramp si imponesse su espars o brut. Come i rims estramps dei trovatori rimano altrove nella canzone e non nella cobla, così gli estramps dei catalani rimano, idealmente, in un altrove che è dato dall’intera tradizione cortese, o meglio da un filone particolare della lirica di ispirazione trobadorica, quello che da Raimbaut e Arnaut arriva fino a Dante e fino agli arnaldiani delle ultime generazioni (per Jordi, fino a Febrer).

Gli estramps catalani sarebbero dunque, in qualche modo, una sorta di canzoni cum auctoritate, cioè farcite di citazioni. Nei modelli più autorevoli di questo microgenere (quelli del troviere Gilles de Vieux-Maisons, di Jofre de Foixa e di Petrarca), era inserito un verso altrui alla fine di ogni stanza. [36] L’innovazione di Febrer è consistita nel citare non dei versi famosi, bensì dei rimanti famosi, in un gioco di sollecitazione e di provocazione della competenza letteraria del suo pubblico che è anche alla base della Passio Amoris di Jordi de Sant Jordi, un poemetto non strofico, quasi un centone, che include, entro un’esile cornice allegorico-narrativa, numerose citazioni liriche. [37]

Tuttavia, nemmeno l’ipotesi delle rime autorevoli, o di una mescolanza di rime autorevoli e rime fènix o villose, serve a spiegare tutto. Occorreva comunque qualche precedente prestigioso per trasformare quello che era considerato un grave difetto (i rims espars o bruts) in una ricercatezza tecnica. E il precedente prestigioso può essere trovato proprio in uno degli auctores volgari che i due poeti catalani citano. Dante non fu il primo, in Italia, a introdurre la rima completamente irrelata, che era abbastanza diffusa tra i lirici del Duecento, in particolare tra i Siculo-toscani. [38] È però possibile che Febrer attribuisse a Dante questa tecnica per lui assolutamente rara e così poco in sintonia con la versificazione dei trovatori: in Lo doloroso amor che mi conduce, [39] due versi per ogni stanza sono privi di rima; e anche nel congedo di una petrosa, Così nel mio parlar voglio esser aspro, il primo verso non rima, terminando con una parola-chiave, donna, benché in quest’ultimo caso l’assenza di rima dipenda da ragioni di ordine strofico. La rima irrelata italiana è un rim dictional allo stato puro, una parola da prendere nella sua globalità e non solo per la sua terminazione. È forse proprio questo il precedente illustre che Febrer poteva avere in mente, tanto autorevole da indurlo a estendere la stessa tecnica a un’intera canzone. [40]

Ma l’esperimento avanguardistico di Febrer, perfezionato sicuramente da Jordi, non poteva ripetersi all’infinito. I continuatori quattrocenteschi degli estramps si servono di un rimario (di un non-rimario, dovremmo dire) ormai codificato e ripetitivo. Immancabili sono parole come sepulcre, cambra, segle, ungla, carçre e così via, a cui si mescolano non-rimanti del tutto banali, come per esempio, anche nel raffinatissimo Corella, luna, humanes, veure, vida, perfino il verbo sia e l’aggettivo possessivo mia [41]

Un caso a parte è quello di Ausiàs March. Alcuni non-rimanti allusivi alla tradizione del genere compaiono anche in March, su questo non c’è dubbio; ma essi affiorano con un grado tale di diluizione che è impossibile affiancare i suoi estramps a quelli dei suoi contemporanei. Nei suoi estramps, tra cui si annovera anche il Cant espiritual, il poeta utilizza generalmente come terminali di verso parole nelle quali la vocale tonica è preceduta o seguita da due o tre consonanti: ma non si tratta di una regola fissa né di qualcosa di particolarmente percepibile da parte dei lettori, abituati a ben altre asperità nella poesia del signore di Beniarjó. Questo rientra perfettamente nel comportamento metrico di March. In apparenza, March non è un grande innovatore di forme metriche: la sua rivoluzione consiste nell’adozione della lingua nativa, e non più del provenzale, come lingua della poesia; nella fondazione di una poetica dichiaratamente a basso grado di letterarietà, che rompe con la tradizione; e nella messa in crisi dei generi medievali. March sembra inoltre invertire la tendenza della lirica d’ispirazione trobadorica, e in fondo degli stessi trovatori, a esibire le proprie fonti, fino al caso estremo della citazione; e sono nel complesso relativamente poche le riprese percepibili dai suoi predecessori. Istruttivi i casi in cui si ha la quasi certezza di potere individuare una fonte: il poeta la rielabora e la stravolge fino a renderla irriconoscibile. In ciò, la sua opera segna una netta frattura nei confronti delle poetiche medievali, incentrate su forme molto spinte di intertestualità. March non avrebbe mai fatto proprio un genere cum auctoritate (l’auctor è lui!), se non dopo averlo privato dei suoi caratteri distintivi, se non dopo averlo completamente integrato alla sua maniera.

 

*  *  *

 

Solo qualche ultima considerazione, per concludere. La lirica catalana del secolo XIV e dei primi del XV è stata sempre descritta in termini abbastanza riduttivi: si è parlato di poesia degli epigoni. In realtà, non mancano forti innovazioni e punte di sperimentalismo, come dimostrano non solo gli immediati predecessori di Ausiàs March, ma anche altri poeti del Trecento. Tutta la lirica catalana medievale andrebbe nuovamente studiata, con rinnovati strumenti e senza i vecchi preconcetti. Da quanto abbiamo visto, al tradizionale repertorio di fonti e di modelli (i trovatori e alcuni trovieri, ma anche Petrarca) va aggiunto, a pieno titolo, Dante. Da quest’angolo d’Europa in cui ora ci troviamo, potrebbe sembrare del tutto ovvio che un autore come Dante abbia sempre irradiato la sua influenza, e che questa influenza sia arrivata, semmai con un po’ di ritardo, in terra iberica; ma la verità è che la poesia di Dante non è mai stata presa a modello in Italia: assai poco la Commedia, per nulla la sua lirica. Altrettanto ovvio potrebbe sembrare che in Jordi, e non solo in Jordi, siano presenti vistosi echi di Petrarca, mentre il petrarchismo si affermerà pienamente in Italia solo verso la fine del Quattrocento.

Dante, tuttavia, non è solo una tessera in più che si aggiunge al mosaico delle conoscenze letterarie dei catalani. La sua presenza alla fine del secolo XIV rivela anzitutto un ambiente letterario curioso e aperto ai nuovi classici volgari, un ambiente che però non insegue le mode, perché Dante, sia in Italia che nel resto d’Europa, non era di moda; essa inoltre potrebbe avere causato, di lì a poco, importanti conseguenze. Si è a lungo discusso sui motivi della svolta linguistica di March. Una spiegazione può essere trovata proprio nella circolazione in area catalana dei nuovi classici volgari, soprattutto italiani, la cui diffusione avrà messo gradualmente in crisi una lingua letteraria, il provenzale catalanizzato, che doveva essere ormai sentita come convenzionale e improduttiva. Dall’Italia insomma viene l’esempio che anche un nuovo volgare, un volgare con credenziali meno prestigiose del provenzale, può servire come grandioso veicolo della lirica e, più in generale, di ogni forma di poesia. In tutto questo, determinante deve essere stato il ruolo del poeta di Vic, che fu forse la vera eminenza grigia della poesia catalana per più di trent’anni: noi abbiamo pochi dubbi che alla base degli echi danteschi in Jordi ci sia la mediazione di Febrer; come ci sembra pressoché certo che March nel suo canzoniere echeggi più volte la Commedia, e più esattamente la traduzione febreriana, completata nel 1429. [42]

Come si vede, lo studio della versificazione può a volte fornire piccole spie che alla fine ci aiutano a comprendere meglio momenti cruciali della storia letteraria. Dal canto nostro, speriamo di avere gettato qualche nuova luce su un genere metrico singolare, unico in Europa.

 

Pubblicato in Revue d’études catalanes, n. 2, 1999, pp. 81-95.