La Divina Commedia in catalano

Costanzo Di Girolamo

 

 

 

 

 

 

Questa di Joan F. Mira è l’ultima traduzione catalana, integrale e in versi, della Commedia di Dante; e, come le altre che l’hanno preceduta, si tratta di una traduzione di alta qualità letteraria, da apprezzare come un’opera di poesia in sé, oltre che come un contributo all’interpretazione di un classico della modernità, come dovrebbe essere sempre giudicata qualsiasi traduzione di notevole impegno. Forse è questa l’occasione opportuna per ricordare anche le altre due versioni più importanti, prima di entrare nel merito di quella di Mira.

La prima traduzione catalana della Divina Commedia, e in assoluto la prima traduzione in versi in qualsiasi lingua, è quella di Andreu Febrer, in terzine rigorosamente rimate, terminata a Barcellona nel 1429. A quel tempo il poema si chiamava ancora semplicemente Commedia, o Comedia (letto alla greca: Comedìa, come si evince dallo stesso testo dantesco: If XVI 128 e XXI 2); l’aggettivo Divina fu introdotto solo nel 1555, nell’edizione stampata a Venezia da Gabriele Giolito sotto la supervisione del grammatico Ludovico Dolce. Nato a Vic intorno al 1375-80 e già morto nel 1444, Febrer fu legato per tutta la vita ai sovrani aragonesi come uomo d’armi, alto funzionario e diplomatico. Viaggiò molto e visse a lungo in Italia, dove per diversi anni fu castellano di Catania; qui dovette sicuramente apprendere bene la lingua e venire a contatto con le opere di scrittori ancora poco noti nella Penisola Iberica, o comunque meno influenti dei trovatori occitani, a cui continuavano a ispirarsi, anche linguisticamente, i poeti catalani. Di Febrer sono sopravvissute, oltre alla Comèdia, solo quindici poesie, tutte di molto anteriori ai suoi soggiorni in Italia: in queste poesie Martí de Riquer non trova quasi nessuna traccia di influenza italiana; ma in realtà, a un esame più attento, si rinvengono prove tangibili che il poeta già conosceva la lirica italiana, in particolare alcuni filoni che, dopo Petrarca, erano passati quasi in ombra in Italia. È dimostrato per esempio che in alcune sue canzoni Febrer utilizza parole in rima che provengono direttamente dal ciclo delle rime petrose di Dante. A parte questo, esiste il forte sospetto che Febrer sia stata l’eminenza grigia di altri importanti poeti più giovani di lui, a cominciare da Jordi de Sant Jordi (1398?-1424), che nei suoi estramps riprende altre parole in rima dantesche, sempre del ciclo delle petrose. Febrer sembra avere dunque introdotto, accanto ai classici occitani, nuovi auctores volgari, soprattutto italiani, ma anche francesi: di origine francese, per esempio, è la forma metrica della sua ballata Ai! cors avars, che dopo di lui usarono Jordi de Sant Jordi e Ausiàs March (1400-1459); e quella del lai, anche ripresa da Jordi e da March.

La sua Comèdia (o Comedia: nel suo caso la metrica non aiuta a capire dove preferisse l’accento) è importante per varii motivi. Anzitutto, la quantità di occitanismi sembra minore rispetto alla produzione lirica, anche in ragione della pluralità dei registri linguistici del poema dantesco rispetto al linguaggio standardizzato della canzone cortese: insomma, la lingua è più catalanizzante che occitanizzante. Questa lingua comprende sicuramente degli italianismi, che tuttavia non vanno intesi come shortcuts sistematici di un traduttore pigro, ma piuttosto come l’apertura di un poeta catalano occitanizzante a un nuovo possibile paradigma linguistico e culturale. Tale operazione è evidente anche nella metrica. Febrer utilizza principalmente tre tipi di decasillabi: quello catalano canonico, con cesura dopo la quarta sillaba tonica, coincidente con uno dei sottotipi italiani:

 

(a)     Dolça color / d’oriental safir    (Pg I 13);

 

il decasillabo con cesura lirica, cioè dopo la quarta sillaba atona, raro in Dante, di tipo occitano, francese e siciliano (va osservato che l’editore della Comèdia, Annamaria Gallina, segnala erroneamente come «anomali» tutti i versi così cesurati, che sono invece regolarissimi):

 

(b)     Marevella / fora de tu, si priu    (Pd I 139);

 

e infine vari sottotipi di decasillabo definibili all’italiana: con uscita femminile del primo membro con sinalefe (c) o senza possibilità di sinalefe e quindi con raccorciamento del secondo (d):

 

(c)     gira e contenta, / ésser virtut dispon    (Pd VIII 98)

(d)     Io són la vida / de Bonaventura    (Pd XII 127);

 

oppure con inversione dei membri rispetto a quello catalano, con uscita del primo membro maschile (e), femminile con sinalefe (f) o femminile senza possibilità di sinalefe e quindi con raccorciamento del secondo (g):

 

(e)     La boqua suslevà / d’aquell fer past    (If XXXIII 1)

(f)      Ja era el Caponsaço / en lo mercat    (Pd XVI 121)

(g)     que corren a Verona / lo drap vert    (If XV 122)

 

A tutti questi tipi se ne aggiungono occasionalmente altri, di più complessa classificazione, ma comunque attestati in Dante o in altri poeti italiani.

Come si vede, il traduttore introduce, sulla base dell’uso italiano, una varietà ritmica ignota al decasillabo catalano medievale: l’antica poesia catalana conosce solo il tipo (a) e eccezionalmente, nei poeti più arcaizzanti, il tipo (b). Si tratta senza dubbio di un’operazione rivoluzionaria, operata con l’autorità di un modello prestigioso, che comportava la violazione di una norma consolidata; ma le norme metriche sono le più dure da abbattere, e la rivoluzione non ebbe successo. Il decasillabo all’italiana fu (ri)scoperto in catalano solo alla fine del secolo XVI (è quello che i manuali di metrica catalana chiamano, impropriamente, decasillabo senza cesura), anche se si deve aspettare fino al pieno secolo XX per ritrovare quasi tutta (non tutta) la varietà di tipi usata da Febrer.

Anche a questo servono, o potrebbero servire, le traduzioni, a cambiare radicalmente alcuni aspetti della tradizione letteraria. È a tutti nota la svolta rappresentata dalle traduzioni medievali dei classici latini nella formazione della prosa delle principali lingue moderne europee. Per alcuni narratori e poeti italiani del Novecento si è parlato di ‘stile da traduzione’: uno stile modellato sulle traduzioni, che talvolta gli stessi scrittori facevano (Pavese, Fortini, Calvino…), da autori stranieri, soprattutto americani. Questo stile, più neutro e essenziale, più fattuale, incise fortemente sulla lingua, in particolare sulla sintassi, dell’italiano letterario della metà del secolo passato, ancora legato a modelli dannunziani. Un simile paragone con l’epoca medievale è sicuramente azzardato, ma fino a un certo punto. Stile più neutro e essenziale, più fattuale: io credo che l’influenza maggiore l’eminenza grigia Andreu Febrer l’abbia avuta proprio su Ausiàs March, anche se, è superfluo ricordarlo, nella storia letteraria non esistono determinismi né rapporti semplici di causa-effetto. In realtà, l’opera dantesca autorizzava, conferiva autorità, a una lingua poetica moderna, l’italiano, terza in Europa per prestigio, dalla prospettiva catalana, rispetto all’occitano e al francese. Di conseguenza, autorizzava la nascita di una nuova lingua poetica, il catalano appunto, tenuto a battesimo da March: una lingua poetica che poteva esprimersi infrangendo, con la sua novità, i paradigmi generici trobadorici, che poteva oscillare fortemente tra i registri stilistici (alti, medi e bassi), e che non aveva bisogno di modelli forestieri. Tutto questo è la «simpla paraula» di Ausiàs March, è la sua decostruzione dei generi letterari (poesie in metri strofici lunghe centinaia di versi, i luoghi comuni che scompaiono, la lirica che diventa qualcosa di mai visto prima), è l’uso rude, perfino violento, che fa della sua lingua materna. Anche le date coincidono: March sembra avere cominciato a comporre non prima del 1425-30; la Comèdia di Febrer è finita nel 1429, ma la traduzione sarà durata diversi anni, ed è probabile che alcune parti circolassero negli ambienti letterari del tempo. Ricordo che Febrer aveva sicuramente conosciuto March (e Jordi de Sant Jordi) nella campagna di Corsica e Sardegna del 1420-21, se non prima, e potrebbe averlo rivisto in seguito a Valenza, dove si recò, con certezza, nel 1427 per ordine di Alfonso il Magnanimo. La personalità letteraria di Andreu Febrer è ancora da mettere bene a fuoco e, soprattutto, la sua Comèdia andrebbe studiata più approfonditamente di quanto non sia stato fatto finora.

La più nota traduzione catalana integrale del poema risale alla metà del secolo XX ed è opera del poligrafo Josep Maria de Sagarra (Barcellona, 1894-1961). La sua pubblicazione cominciò a puntate nel giugno del 1935 nella Veu de Catalunya e si interruppe tredici mesi dopo, all’inizio della guerra civile. Sagarra partì per un interminabile viaggio di nozze in Polinesia, e solo al ritorno, nel 1940, riprese in mano Dante. La prima edizione, in tre volumi, è del 1947-51 (Barcelona, Joan Sallent); fu seguita poi dall’edizione Alpha del 1950-52, e da quella che si può considerare definitiva, apparsa nel 1955 per la stessa casa editrice. È appunto su quest’ultima edizione che si basa la nuova, bellissima edizione dei Quaderns Crema (più bella, bisogna dire, di quella che propone la traduzione di Mira), con piccoli ritocchi alla punteggiatura e alcune correzioni di errori di stampa. Anche la versione di Sagarra è in terzine rimate: una scelta che forse può apparire poco moderna, voglio dire poco moderna non rispetto a oggi, ma già a cinquant’anni fa. Temo che il confronto con la versione di Febrer vada a sfavore del traduttore moderno, sebbene fosse un grande professionista della traduzione: forse i poeti medievali avevano un’altra consuetudine con la rima, e Febrer (che, paradossalmente, inventò i versi senza rima, gli estramps; ma nessuno se ne accorse in Europa finché gli italiani non lanciarono, nel Cinquecento, gli endecasillabi sciolti) ne era un maestro. Il Dante di Sagarra appare leggermente dolcificato, un po’ troppo musicale rispetto all’originale italiano, ma fluido, veloce, leggibile senza intoppi: quasi un Dante ‘di consumo’, avrebbe detto Fortini, almeno nel senso che andava incontro alle attese di un pubblico medio. Franco Fortini (Firenze, 1917 - Milano, 1994) è stato un teorico, sulla scia di Brecht, delle traduzioni non fedeli: le cosiddette traduzioni d’arte occultano, secondo lui, la crescente omogeneità tra letteratura di consumo e letteratura d’arte, dovuta alla mercificazione dei prodotti letterari. Meglio quindi, nella traduzione, la distanza, lo scarto, perfino il rifacimento e la parodia, piuttosto che una falsa fedeltà: nel caso di Sagarra, appunto, la fedeltà consiste nell’uso di una forma metrica improbabile nelle mani di un traduttore contemporaneo, che può andare semmai a danno della fedeltà al senso, perché ogni terzina va smontata e rimontata in vista delle tre nuove rime. Beninteso, anche la terzina dantesca è stata ripresa da poeti contemporanei, da Pasolini per esempio (Le ceneri di Gramsci, 1957), ma questa è un’altra storia.

Sagarra, traduttore di mestiere che nel giro di pochi anni riuscì a snocciolare quasi tutto il teatro di Shakespeare, sembra rendersi conto della ‘sacralità’ della parola poetica originaria e quindi dell’impossibilità della traduzione. Le espressioni e i concetti che usa nel dire questo sono anch’essi poco attuali, ma rivelatori. Si vedano queste annotazioni, che hanno quasi il tono di una confessione al lettore, nel Comentari al cant V dell’Inferno:

 

En la traducció d’aquest cant, el traductor se sent una mica avergonyit, perquè és molt difícil donar a totes aquestes paraules el to i l’aire de l’original. No es tracta de traduir d’una llengua forastera ni d’interpretar conceptes, ni d’aconseguir musicalitats prosòdiques equivalents. Com en els instants solemnes de la gran poesia, es tracta de seguir el ritme d’un cor i la percussió d’una intel·ligència excepcionals, que, valent-se de la paraula, creen elements de bellesa pura. Tocar aquests elements de bellesa, despullar-los, desfer-los i refer-los, és una profanació. Aquesta és la servitud del traductor: cometre tals profanacions que, per molt a fi de bé que es facin, delataran sempre la gosadia i la impotència de qui les comet.  (73)

 

Eppure, la sacralità di questa parola sembra violata, ‘profanata’, come dice, fin dal primo verso dell’Inferno: «Al bell mig del camí de nostra vida». Perché «Al bell mig»? Certo, al bell mig significa ‘esattamente alla metà’: bell ha una funzione intensiva e enfatizzante, ma Dante non lo dice, non pone nessuna enfasi. Si tratta dell’innocente aggiunta di una sillaba per completare il decasillabo? Sicuramente sì: in catalano moderno sarebbe suonata insolita, al limite del corretto, per via della prima preposizione, la cruda traduzione di Febrer, «En lo mig del camí de nostra vida», sia pure con l’ammodernamento dell’articolo, da lo a el: «En el mig del camí de nostra vida» (cfr. Mira: «A la meitat del camí de la vida», che però si perde il nostra, che molte cose significa, e usa un termine, meitat, che forse è troppo concreto e aritmetico rispetto a mig); né Sagarra avrebbe considerato accettabile un decasillabo ritmicamente non canonico come «Al mig del camí de la nostra vida» (anche Mira evita questa semplice soluzione, benché poi usi versi così accentati). Tuttavia, come l’identica locuzione italiana nel bel mezzo, o locuzioni simili in altre lingue formate con ‘bello’, come il francese un beau jour ‘un certo giorno’, che probabilmente avevano in origine sfumature leggermente colloquiali, in catalano al bell mig suona come una frase fatta, logorata dall’uso e un po’ letteraria. Forse sbaglio, ma la vedrei meglio all’inizio di una favola o di un romanzo poliziesco, non del poema sacro.

Nonostante tutto, la versione di Sagarra, oltre a essere la testimonianza di un gusto e di una sensibilità letteraria che in ogni caso vanno rispettati, ha svolto egregiamente per decenni e con un discreto successo editoriale la funzione di far conoscere, in catalano, l’opera dantesca alla comunità linguistica catalana. In questo senso, la sua Divina Comèdia completa quel progetto di divulgazione ad alto livello delle principali opere della letteratura universale che caratterizza la cultura catalana moderna fin dall’epoca della Renaixença e che ha incluso, com’è noto, perfino il Don Chisciotte. Anni fa parlai dell’importanza delle ‘traduzioni inutili’: non è esattamente il caso della Commedia (comunque leggibile già prima in castigliano), ma del Don Chisciotte sì; e io mi riferivo in particolare alle traduzioni dal toscano al siciliano del secolo XV, quando il toscano era perfettamente compreso e scritto in Sicilia. La traduzione, in questi casi, perde qualsiasi valore strumentale, pratico, diventa un atto di omaggio alla lingua in cui si traduce, che deve misurarsi, da pari a pari, con i classici del passato. Con tale spirito, in un periodo difficile, Sagarra tradusse Dante: la sua traduzione non può dirsi inferiore per qualità e impegno a quelle esistenti in altre lingue europee, e di questo gli va dato atto, a mezzo secolo di distanza.

E veniamo in ultimo alla Divina Comèdia di Joan F. Mira (Valenza, 1939). La presentazione grafica è abbastanza deludente: manca per esempio nei titoli correnti l’indicazione dei canti, il che rende complicata la ricerca di un luogo; degli sgradevoli asterischi, che rinviano alle brevi note a piè di pagina, deturpano il testo catalano. Inoltre (la scelta non sarà casuale, ma non è del tutto comprensibile), si rinuncia alla scansione in terzine, normalmente segnalata da un rientro tipografico, e tutti i versi sono allineati a sinistra; si segna invece con uno spazio il passaggio da un episodio all’altro e si staccano (diremo subito il perché) gli ultimi quattro versi di ogni canto. Tuttavia, la divisione del poema in episodi è un’operazione abbastanza arbitraria, anche perché alcuni nuclei narrativi si prolungano da un canto all’altro, creando una sorta di enjambement del racconto. Ma si tratta di dettagli, a cui forse si potrà rimediare in una prossima edizione. Aggiungo che nel copiare il passo qui alla fine ho trovato un errore di stampa nel testo italiano, che è a fronte qui come nella altre due versioni; naturalmente non so quanti altri ce ne possano essere. È probabile che il testo dantesco sia stato preso da internet (trovo infatti lo stesso errore in uno dei siti che lo ospitano), e bene ha fatto la casa editrice, per ridurre i costi e per evitare una composizione delicatissima, che avrebbe potuto causare chi sa quali disastri; ma internet non è infallibile, e il testo andava rivisto sull’edizione critica a stampa.

L’innovazione principale di Mira rispetto a Sagarra è l’abbandono della rima, a meno che la rima non si presenti spontaneamente nel passaggio da una lingua all’altra. Questa scelta va sottolineata perché tra i traduttori in versi esistono scuole di pensiero che bandiscono in ogni caso la rima, rifuggendola anche quando apparirebbe senza sforzo. L’unico lusso che Mira si permette è la conservazione della rima, o di una rima imperfetta o di un’assonanza, nell’ultima terzina e nel verso di chiusura, che rima solo con un altro verso, con il risultato di ottenere una quartina a rime incatenate (abab):

 

Al puig que més s’eleva sobre l’ona

vaig ser, havent viscut pur i pecant,

de la primera hora fins la segona

 

després que el sol canvia de quadrant.     (Pd XXVI 139-142)

 

L’espediente potrebbe essere inteso come una sorta di segnale della fine del canto, ma ricorda piuttosto l’uso, nel teatro contemporaneo, di abbandonare le vesti e gli arredi d’epoca, non lasciandone che qualche sparuta traccia. Se è giusto il paragone, la sua Comèdia non è in costume, non si presenta travestita, ma allude a qualcosa di perduto e di assente.

Se Mira rinuncia alla rima, non rinuncia però al sillabismo: i versi di Sagarra rientravano nella categoria (come ho detto, discutibile) dei decasillabi senza cesura, ma con accentazione regolare, il che significa, per semplificare le classificazioni dei manuali di metrica, che hanno un accento metrico in quarta e/o in sesta, oltre ovviamente che in decima, e altri accenti più o meno liberamente distribuiti. Molto più libero e ‘irregolare’, se così si può dire, il decasillabo di Mira, che contempla ogni tipo di accentazione e inoltre un impiego molto elastico, benché un po’ faticoso per il lettore, delle figure metriche. Anche questa è una scelta senz’altro apprezzabile: ne risulta un andamento mosso, variabile, che riproduce abbastanza bene il verso di Dante, ancora molto lontano dalle cadenze uniformi del verso petrarchesco. Ma si ci chiede se non si poteva andare oltre. In effetti, del decasillabo Mira conserva in molti casi solo la legalità, la contabilità: se si conta bene e se si interpretano opportunamente le sue figure metriche, sono dieci sillabe. Un passo in avanti poteva consistere nel fare con il verso quello che è stato fatto con la rima: lasciarla dove capita e alludere ad essa nelle quartine finali. Per la metrica, si poteva seguire un modello anisosillabico: a differenza del verso libero, l’anisosillabismo (quello dei poeti medievali e quello dei poeti contemporanei) allude a uno schema metrico e ritmico di base, qui quello del decasillabo, che però può essere deformato entro certi limiti. Probabilmente l’anisosillabismo sarebbe stata una soluzione migliore, più moderna e più congeniale alle intenzioni dello stesso traduttore, rispetto a quella adottata.

È superfluo dire che dal punto di vista filologico e interpretativo (perché, come dicevo all’inizio, la traduzione di un testo antico è anche e sempre un contributo filologico alla sua interpretazione) la versione di Mira è la migliore, e non solo perché è l’ultima in ordine di tempo. È vero che Mira ha potuto servirsi dell’eccellente edizione critica di Giorgio Petrocchi, apparsa dopo la morte di Sagarra, e che, rispetto a lui, ha avuto a disposizione mezzo secolo in più di bibliografia e di altre traduzioni in altre lingue; ma è soprattutto vero che Mira, oltre a essere uno scrittore in proprio, ha, in quanto grecista, una consuetudine da professionista nell’interpretazione filologica dei testi. Per di più, la sua opzione di rinunciare alla rima e a un verso ritmicamente impeccabile gli permette di aderire più da vicino all’originale, e infatti quello che si apprezza di più nella sua versione è la lingua, viva e diretta, come sicuramente doveva suonare quella di Dante ai suoi contemporanei, e il drastico abbassamento, rispetto a Sagarra, del grado di letterarietà. Per certi aspetti la sua traduzione sembra avvicinarsi più a quella, energica e ruvida, di Febrer che non a quella, levigata e senza spigoli, del suo immediato predecessore. È dunque questa una nuova Commedia nella stessa lingua che prima in Europa, quasi sei secoli fa, la rese in versi.

Per concludere, vorrei riprodurre senza commenti alcuni versi delle tre versioni, insieme con l’originale italiano: così sarà il lettore a farsi un’idea di tre modi diversi di tradurre, dal felice ‘calco’, come qualcuno ha detto, di Febrer, al raffinato riarrangiamento di Sagarra, fino alla versione più precisa e scattante di Mira. Si tratta della parte finale del canto XXVI dell’Inferno (vv. 112-142), dove Ulisse, dopo avere esortato i suoi compagni, va incontro all’ignoto e alla morte.

 

 

 

 

Dante

 

    «O frati», dissi, «che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

    d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

    Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza».

    Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

    e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

    Tutte le stelle già de l’altro polo

vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

che non surgëa fuor del marin suolo.

    Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

    quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avëa alcuna.

    Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,

ché de la nova terra un turbo nacque

e percosse del legno il primo canto.

    Tre volte il fé girar con tutte l’acque;

a la quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

    infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.

 

Febrer

 

    «O ffrares meus», diguí, «qui per cent míl·lia

perills sots junts ab mi a l’occident,

en aquesta ten petita vigíl·lia

    dells nostres senys qui és del romanent

no vullàs res negar l’esperiença,

derrera·l sol, en lo món sensa gent.

    Considerats1 bé la vostra semença;

que no fos fets per viure com a bruts,

mas per saguir virtut e conexença».

    Mos companyons fiu jo axí aguts,

ab cesta oració poqua, al camí,

qu·a penes puys los hagre retenguts;

    e la popa volta vers lo matí,

dels rems fahem ales a aquell foll vol,

tostems guanyant del costat de garbí.

    Tots los estells ja d’aquell altro poll

veia en la nit, e·l nostro atant bas,

que no s’alsava fors del marí sol.

    Cinch veus reencès e altres tantes caç

era lo lum tot desots de la luna,

puys que nós fom entrats en cell alt pas,

    quant nós vehem una montanya, bruna

per la distança, e parech alta tant

com n’agués may jo vista ja alguna.

    Alagram-nós, mas tost tornà en plant;

car de lla nova terra un torb2 nasqué

e ferí fort lo leny del primer qant.

    En les ondes tres veus girar lo fé;

a la quarta levà la popa ensús

e la proa enjús, com a ·ltri plagué,

    entrò que·ll mar fo sobre nós reclús.

 

1 Ms. e ed. Considerans.    2 Ms. e ed. trop.

 

Sagarra

 

    «O germans», vaig cridar, «que, per cent mil

perills, de l’Occident heu vist la punta:

si passar a l’altra banda em ve d’un fil

    i si als sentits la senectut s’ajunta,

per un ai, no em negueu l’experiment,

i anem al món on cap vivent no apunta!

    Considereu si us plau vostra sement:

no sou pas bèsties, i heu d’omplir la vida

amb la virtut i amb el coneiximent».

    Als meus companys donà tanta embranzida,

el breu discurs, per començar el camí,

que ja se m’escapaven de la brida.

    I la popa girant vers el matí,

fèiem ales de rems, braços i esquenes,

pel foll volar a mà esquerra sens finir.

    De l’altre pol les lluentors serenes

veia la nit, i el nostre tant baixà,

que per damunt la mar s’alçava a penes.

    Cinc voltes es va encendre i s’apagà

la llum a la part baixa de la lluna,

després d’entrats en l’aspre navegar,

    quan se’ns presenta una muntanya, bruna

per la distància, i em semblà tan gran

que mai com ella no en vegí ni una.

    I el nostre goig es va acabar plorant,

car de la terra nova un torb venia

que sotragà la barca pel davant.

    El remolí tres voltes ens cenyia;

a la quarta, la popa va anar amunt

i avall la proa, com algú volia,

    i la mar es clogué al nostre damunt.

Mira

 

«O germans», els vaig dir, «que per cent mil

perills heu arribat a l’occident,

a aquesta breu vigília dels sentits

que encara ens queda per aprofitar

no li volgueu negar l’experiència

del món sense habitants, seguint el sol.

Recordeu-vos de la vostra llavor:

no vau ser fets per viure com les bèsties,

sinó adquirint virtut e coneixença».

Vaig donar als companys tan gran desig

de fer camí, amb aquest petit discurs,

que a penes si els podia retenir;

i, amb la popa girada a l’orient,

dels rems vam fer ales per un vol boig,

sempre guanyant camí cap a l’esquerra.

A la nit veia totes les estrelles

de l’altre pol, i el nostre era tan baix

que no s’alçava ja del sòl del mar.

Cinc vegades s’encengué i s’apagà

la llum que es veu per sota de la lluna

després de travessar el pas terrible,

quan va sorgir una muntanya, bruna

per la distància, i em semblà tan alta

com no n’havia vista mai cap altra.

La nostra joia aviat es tornà plor:

de la nova terra nasqué un gran vent

que va envestir el vaixell per davant.

 

El féu girar tres voltes amb les aigües;

a la quarta, la popa es va aixecar

i la proa baixà, com volgué un altre,

 

fins que damunt nostre es tancà la mar.

 

 

 

Nota bibliografica

 

Le tre versioni della Commedia di cui abbiamo parlato sono: Dant Alighieri, Divina Comèdia, versió catalana d’Andreu Febrer, a cura d’Annamaria Gallina, 6 voll., Barcelona, Barcino («ENC»), 1974-88; Dante Alighieri, La Divina Comèdia, traducció i comentaris de Josep Maria de Sagarra, edició bilingüe, Barcelona, Quaderns Crema, 2000; Dante Alighieri, Divina Comèdia, traducció, introduccions i notes de Joan F. Mira, Barcelona, Proa, 2000. Il testo italiano a fronte della prima e dell’ultima (e del passo qui sopra citato) è quello dell’edizione critica a cura di Giorgio Petrocchi, La Commedia secondo l’antica vulgata, 4 voll., Milano, Mondadori, 1966-67; quello della seconda riproduce, correttamente, l’edizione utilizzata da Sagarra, a cura di Giuseppe Vandelli, Milano, Hoepli, 1932. Non mi è stato possibile vedere la traduzione in versi, incompleta, di Narcís Verdaguer i Callís (1862-1918): Dant Alighieri, La Divina Comèdia, posada en català per N. Verdaguer i Callís, 2 voll. (Infern, Purgatori), Barcelona, Altés, 1921; né quella, in versi e in prosa, di Llorenç Balanzó i Pons (1860-1927): Dante Alighieri, La Divina Comèdia, traduïda al català en rima i en prosa [pel] Marquès de Balanzó, 3 voll., Barcelona, Tip. Catòlica Casals, 1923-24.

Su Febrer si veda il capitolo di Martí de Riquer nella sua Història de la literatura catalana, 4a ed., Barcelona, Ariel, 1984, vol. II, pp. 92-111; e anche Jordi Rubió i Balaguer, Història de la literatura catalana, 3 voll., Barcelona 1984, vol. I, pp. 293-296, 313-315. Le poesie liriche di Febrer sono state edite da Riquer: Poesies, Barcelona, Barcino («ENC»), 1951.

La presenza di tracce dantesche nei poeti catalani è stata studiata da Donatella Siviero e da chi scrive in «Da Orange a Beniarjó (passando per Firenze). Un’interpretazione degli estramps catalani», Revue d’études catalanes, n. 2 (1999), pp. 81-95. L’ipotesi della Commedia come possibile modello o ideale punto di riferimento per March è formulata nell’Introduzione a Ausiàs March, Pagine del Canzoniere, a cura di Costanzo Di Girolamo, Milano-Trento, Luni, 1998, pp. 13-15.

Sulle traduzioni moderne di Dante in catalano, esclusa quella di Mira, si veda Rossend Arqués, «El rastre de la pantera perfumada (Dante en les poètiques catalanes de la modernitat)», in Rossend Arqués e Alfons Garrigós, Sobre el Dant, Barcelona, Editorial Claret, 2001, pp. 23-53.

Il saggio di Franco Fortini sulla traduzione a cui ho accennato, «Traduzione e rifacimento» (1972), è nel volume Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, pp. 359-379.

Ho parlato delle traduzioni inutili nella mia edizione del Libru di lu transitu et vita di misser sanctu Iheronimu, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1982, pp. liv-xlv e in Introducción al estudio de la literatura (in collaborazione con Franco Brioschi), Barcelona, Ariel, 1988, pp. 54-55.

 


Pubblicato in catalano: «La Divina Comèdia en català», L’Espill, n. 7, 2001, pp. 131-140.

Messo in rete il 7.xi.2001.


Post scriptum.

Comèdia o comedia?

 

 

Qui sopra ho detto che mentre possiamo essere certi che Dante accentava Comedìa il titolo del suo poema, non sappiamo Febrer «dove preferisse l’accento». Meglio avrei potuto dire: non sappiamo come si usava accentare la parola nel catalano dell’epoca.

Che Dante accentasse la parola sulla -i- è provato dall’andamento ritmico dei due versi in cui compare nella Commedia:

 

        di questa comedìa, lettor, ti giuro,     (If XVI 128)

        che la mia comedìa cantar non cura,     (If XXI 2)

 

e confermato dall’accentazione della parola sua gemella:

 

        l’alta mia tragedìa in alcun loco:     (If XX 113)

 

In questi versi non c’è ragione di ipotizzare degli improbabili ictus di quinta, rarissimi in Dante. Si tratta invece di tre normali endecasillabi a maiore, sicché l’accento sulle due parole deve necessariamente cadere dove l’editore lo ha segnato.

Quelle dantesche sono le prime attestazioni in italiano delle due voci. Lo splendido saggio di Pio Rajna, «Il titolo del poema dantesco», del lontano 1921 (Studi danteschi, 4, pp. 5-37), e ora la consultazione della base di dati del Tesoro della lingua italiana delle Origini, che si arresta al 1375, ci informano con dovizia di dati che l’unica accentazione documentata nel Medioevo, ricavabile dai testi in versi in cui la parola compare in rima o alla fine del primo membro dell’endecasillabo, è comedìa (o commedìa: la doppia -m- compare sporadicamente già nel latino medievale); e lo stesso si dica per tragedìa. Ancora nella seconda metà del Quattrocento, nel Morgante di Luigi Pulci la voce, che ricorre due volte, conserva lo stesso accento: 

 

nella sua Comedìa Dante qui dice,     (I 8, 7)

 

Ed io pur comedìa pensato avea

iscriver del mio Carlo finalmente,     (XXVII 2, 1-2);

  

mentre all’ultimo verso dell’ottava che precede l’ultima citazione leggiamo: 

 

sarà pur tragedìa la istoria nostra.     (XXVII 1, 8)

 

Il cantare I è anteriore, forse di molto, al 1478, anno dell’edizione perduta in ventitré cantari; il XXVII è anteriore, forse di poco, al 1483,  anno della pubblicazione del Morgante ‘maggiore’ in ventotto cantari. A distanza di qualche decennio, tuttavia, l’accento risulta ritratto sulla -e-, fissandovisi stabilmente. Lo testimonia, forse per primo, Ludovico Ariosto, a cominciare dal Prologo della sua prima commedia, la Cassaria, messa in scena nel 1508:

 

Nova comèdia v’appresento, piena

di vari giochi, che né mai latine

né greche lingue recitarno in scena;     (1-3)

 

L’accentazione di Dante, quindi, non è una stranezza, una sua idiosincrasia, ma corrisponde all’uso medievale di accentare alla greca parole certamente non ignote al latino classico e medievale, ma che erano entrate nella lingua volgare senza una continuità di sviluppo a partire dalla lingua madre. Per la verità, gli stessi grammatici ammettevano un’accentazione parossitona di -ia in latino, giustificandola con l’accentazione greca. Lo prova un luogo del Catholicon di Giovanni da Genova, citato e commentato da Rajna (pp. 7-8), dove si concede libertà di accento su vocaboli come comedia e tragedia, e inoltre elegia, abbacia, theologia, «et his similia». È possibile che la confusione sia stata causata da voci di origine greca che in latino effettivamente erano parossitone (s’intende a partire da quando l’accento musicale latino si trasformò in un accento di intensità), come elegia, dove la -i- nasconde il dittongo greco -ei-; o da voci formate nella latinità tarda, come abbatia, quando le regole dell’accento non erano più in stretto rapporto con il sistema quantitativo, in via di estinzione o già estinto. Dovette anche influire l’enorme produttività del suffisso -ìa nella formazione di astratti da aggettivi (follìa), di termini che esprimono giurisdizioni (baronìa), di nomi geografici (Lombardìa), ecc. La maggior parte di queste accentazioni medievali sono rimaste tali, in italiano, fino ad oggi: basti pensare a parole dalle vicende linguistiche e dalla configurazione fonetica simile, come armonìa (anch’essa documentata per la prima volta in Dante: tre occorrenze nella Commedia, altre in prosa nella Vita nova e nel Convivio), fantasìa, filosofìa, melodìa, monarchìa, teologìa, e via dicendo. Se c’è qualche eccezione, si tratterà di voci di cui si era probabilmente perduta la consapevolezza dell’origine greca e che non avevano mai cessato di circolare, come stòria.

C’è perciò da chiedersi come mai tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento sia stato dato a commedia e tragedia un accento alla latina che in origine non avevano. Si tratta evidentemente di due voci, rare nel Trecento, che erano entrate poi a far parte delle discussioni umanistiche sulla poetica e l’accento ‘giusto’ sarà stato a un certo punto imposto dai grammatici o dagli uomini di cultura che più le usavano; ma deve essere chiaro che l’accento ‘giusto’ rappresenta in realtà un’anomalia che sembra tutta italiana e tutta umanistica. Tale processo può essere durato molti decenni: quando scriveva Pulci era forse già avviato e si può anche sospettare che questo poeta arcaicizzasse usando l’accentazione di Dante; era sicuramente compiuto nel 1508, quando fu rappresentata la prima commedia di Ariosto: secondo Rajna, a quest’epoca l’accentazione com(m)edìa (e ovviamente tragedìa) «nel mondo umanistico doveva essere abbandonata da tempo» (p. 6).

Chiediamoci a questo punto quale fosse l’accento di queste parole in catalano al tempo di Andreu Febrer. Nel suo caso, purtroppo, la metrica non ci dice niente. Rileggiamo i tre versi che ci interessano nella sua traduzione (riproduco anche graficamente l’edizione Gallina):

 

d’esta Comèdia, lector, te jur,     (If XVI 128)

qu·esta Comèdia cantar no cura,     (If XXI 2)

l’alta mia tregèdia, en un loch:     (If XX 113)

 

Il decasillabo dantesco di Febrer ammette un’ampia varietà di modelli ritmici, tutti più o meno giustificabili sulla base della tradizione metrica occitana e italiana, non di quella catalana contemporanea, sicché non cambia niente se accentiamo le parole diversamente da come vuole l’editore. Potremmo cercare conferme indirette all’una o all’altra accentazione in altri autori, ma di comèdia non esiste nessun’altra occorrenza in versi. I lessici tacciono sulla questione: il DCVB accenta comèdies anche la prima attestazione (in Eiximenis, fine del sec. XIV); il DECLlC parla invece (e si tratta di una supposizione molto interessante) di derivazione della parola dal latino e dal greco «en part per conducte de l’italià»; e il DCECH aggiunge: «En el sentido de ‘poema alegórico’, como en la obra del Marqués [de Santillana, la Comedieta de Ponza], el vocablo se tomó del italiano, por influjo de la Commedia de Dante; pero a fines del siglo y en el siguiente (Hernán Núñez, P. S. Abril, etc.) los humanistas castellanos lo tomaron nuevamente del latín, y en su sentido clásico».

Siamo però più fortunati con tragèdia, che compare in rima una volta, con l’accento su -i-, nello Spill di Jaume Roig (1460 circa):
 

Tuli, Cato,

Dant, pohesies

he tragedies,

tots altercaven

he disputaven;     (II 1, 913-916)

 

Il luogo è citato sia dal DCVB sia dal DECLlC, e in quest’ultimo, prima della citazione, si precisa: «S’havia accentuat a la grega, sobre la í».

Le conclusioni di questo excursus dovrebbero essere abbastanza ovvie, nonostante l’unicità della prova. Non esistono motivi per pensare che in catalano, quando Febrer terminò la traduzione della Commedia (1429) e almeno fino alla seconda metà del secolo, le parole comèdia e tragèdia fossero proparossitone come lo divennero poi. Entrambe si accentavano allo stesso modo di armonia, fantasia, filosofia, melodia, monarchia, teologia, ecc., accentazioni, tutte documentate nei poeti catalani medievali, che queste voci conservano tuttora. Ciò lascia supporre che il catalano si comportasse all’epoca esattamente come l’italiano nel trattamento dei grecismi terminanti in -ía, né è da escludere che alcuni di questi siano proprio di mediazione italiana. Tra le principali lingue di cultura a cui gli scrittori catalani del Medioevo potevano guardare, cioè l’occitano, il francese, l’italiano e il castigliano, ai fini dell’accentazione il francese non contava perché è una lingua ad accento fisso; quasi lo stesso si può dire dell’occitano, una lingua ad accento ‘a libertà limitata’, secondo la terminologia di Paul Garde, che dispone di un numero sparutissimo di proparossitoni (l’accento cade normalmente sull’ultima o sulla penultima: vedi ad esempio luxuria [í] in rima nei trovatori), e in ogni caso comedia e tragedia sono voci sconosciute alla lingua medievale. Resta il dubbio tra l’italiano e il castigliano, ma tutta una serie di considerazioni fa propendere a favore della prima lingua piuttosto che della seconda: comedia e tragedia sono parole introdotte per la prima volta in volgare in Italia, con l’accento che abbiamo detto; la diffusione europea di comedia è strettamente legata alla fortuna del poema dantesco; tra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento la cultura catalana è particolarmente aperta verso l’Italia e Dante era già considerato un auctor; Febrer aveva a lungo soggiornato in questo paese dove, all’inizio del Quattrocento, l’accentazione corrente della parola era ancora sicuramente parossitona.

Mi pare perciò provato, dall’evidenza dello Spill e da alcuni argomenti indiziari, che Febrer volesse chiamare Comedia e non Comèdia la sua versione del poema di Dante: i tre versi in questione andranno perciò corretti nelle future edizioni, come andranno corrette le grafie comèdia e tragèdia nei testi medievali in prosa. Ma, chiusa una questione, se ne apre un’altra: perché in castigliano, a pochi anni dalla Comedia di Febrer, troviamo comedia proparossitona («de quien mi comedia e proçesso canta»: Santillana, Comedieta de Ponza, v. 950)?

 


Messo in rete il 17 ottobre 2002