Le fonti letterarie di
Ausiàs March sono state studiate, da sempre, in maniera abbastanza attenta e
approfondita. Devo specificare le fonti «letterarie», perché accanto alle fonti
letterarie sono state studiate a fondo, a partire da Pagès, anche le fonti
filosofiche e, negli ultimi tempi, le fonti per così dire scientifiche o, come
dice Lola Badia, «naturali», presenti nell’opera di March.
Queste ultime fonti
(scientifiche o naturali) sono di grande importanza per la comprensione del
poeta valenzano; e sono inoltre significative di per sé, perché March è senza
dubbio il primo poeta di tutta la Penisola Iberica a ‘complicare’ con
ingredienti filosofici e scientifici la sua poesia. Ausiàs March ha sicuramente
questo primato: il primato di essere, in assoluto, il primo poeta-filosofo
della Penisola Iberica. È un primato certamente importante, ma che forse
impressiona di più gli studiosi e i lettori di questo angolo d’Europa in cui in
questo momento sto parlando (è una perifrasi per dire: gli studiosi e i lettori
di lingua catalana e delle altre lingue dello Stato spagnolo) che non gli
studiosi e i lettori del resto del mondo, e in particolare quelli italiani. La
scienza e la filosofia avevano già fatto il loro ingresso nella lirica europea
due secoli prima: nell’Italia meridionale, con i poeti della Scuola siciliana
riuniti attorno all’imperatore Federico II (la scuola fu attiva tra il 1230 e
il 1250 circa); e poi in Toscana, soprattutto con Guido Cavalcanti e con Dante
Alighieri (siamo tra la fine XIII e l’inizio XIV secolo).
Tra le fonti letterarie di
March, già Pagès aveva individuato echi dalla poesia italiana del Duecento e
del Trecento: March doveva sicuramente conoscere alcuni poeti del dolce stil
novo e Petrarca (sia il Petrarca del Canzoniere
che quello dei Trionfi). E doveva,
molto probabilmente, conoscere Dante lirico. A differenza di Petrarca, il Dante
lirico ha avuto un’influenza molto limitata, sia in Italia che, in generale, in
Europa. Non così, tuttavia, nel Paesi di lingua catalana. Una prova
inconfutabile, passata finora inosservata che è stata evidenziata di recente da
Donatella Siviero, ci è data da due poeti molto vicini a Ausiàs March, Andreu
Febrer e Jordi de Sant Jordi.
Andreu Febrer è
probabilmente l’inventore del genere degli stramps,
ottave di decasillabi senza rima, con uscita femminile. Alla base di questo
esperimento, che sarà ripreso da altri e poi da Ausiàs March, c’è sicuramente
la sestina di Arnaut Daniel (le parole non rimanti sono rare e foneticamente
‘aspre’), ma c’è anche Dante lirico: Dante infatti deve avere fatto conoscere
l’uso italiano di introdurre in una canzone versi senza rima (o con rima
‘irrelata’ o ‘negativa’), qualcosa di impensabile nella poesia dei trovatori,
in cui ogni verso doveva essere immancabilmente concluso da una rima. Nella sua
canzone in stramps, Sobre·l pus naut alament de tots quatre,
Febrer riprende alcune rime del Dante delle rime petrose (un ciclo di quattro
canzoni stilisticamente legate a Arnaut Daniel), esattamente tre: roda, aspra, erba.
Jordi de Sant Jordi fa la
stessa cosa. Nei suoi stramps, la
famosa canzone Jus lo front port vostra
bella semblança, Jordi usa tre parole rima della sestina di Dante: pedra, dona e ombra; inoltre,
tre parole-rima della sestina di Arnaut Daniel: arma, ungla e cambra; quattro parole non-rima degli stramps di Febrer: segle, sepulcre, visque e Pantasilea, e inoltre altre parole usate da lui stesso in rima in
altri componimenti. Jordi sembra dunque pienamente consapevole della linea che
da Arnaut Daniel (e forse prima ancora da Raimbaut d’Aurenga) passa al Dante
lirico delle petrose e arriva fino a Andreu Febrer.
Prima tuttavia di andare
avanti, è necessaria una breve parentesi sul modo in cui Ausiàs March si serve
delle sue fonti. March in effetti sembra invertire la tendenza della lirica di
ispirazione trobadorica, e degli stessi trovatori, a esibire le proprie fonti,
fino al caso estremo della citazione; e sono nel complesso relativamente poche
le riprese percepibili dai suoi predecessori. Istruttivi i casi in cui si ha la
quasi certezza di potere individuare una fonte: il poeta la rielabora e la
stravolge fino a renderla irriconoscibile. In questo, l’opera di March segna
una netta frattura nei confronti delle poetiche medievali, incentrate su forme
molto spinte di intertestualità. Con questo, voglio dire che è molto più
difficile che non in altri autori cogliere le fonti del nostro poeta.
È quindi abbastanza
ragionevole pensare che March, formatosi nello stesso ambiente letterario di
Febrer e di Jordi de Sant Jordi, conoscesse le poesie liriche di Dante e, come
ho detto, le canzoni petrose in particolare, che manifestano lo stesso stile
aspro e duro, tutt’altro che musicale, dei primi canti dell’Inferno. March tuttavia si rivela un
poeta meno interessato allo sperimentalismo metrico dei suoi contemporanei
valenzani e catalani: i suoi interessi sono di altro tipo e riguardano
principalmente, come ho detto prima, la complicazione della poesia con elementi
di carattere filosofico.
In questa prospettiva, io
credo che non si debbano cercare le fonti di March solo nella precedente poesia
lirica (trovatori, trovieri, stilnovisti, Dante lirico e Petrarca), ma che di
grandissima importanza sia stata per lui, soprattutto nelle poesie della
maturità, un’opera non lirica, cioè la Divina
Commedia: un’opera che March poteva conoscere anche nell’originale
italiano, ma che sicuramente doveva avere letto nella bella traduzione di
Febrer, terminata nel 1429. Come ricorderete, Dante è esplicitamente citato da
March in XLV 90:
O bon’amor, a qui mort no
triumpha,
segons lo Dant ystòria
recompta . . .
Nel tempo che mi resta
cercherò di sviluppare due punti. Vedremo prima di cogliere alcuni echi precisi
della Commedia nella poesia di Ausiàs
March. Alcuni di questi echi sono già stati notati da altri prima di me (e dirò
da chi); altri no. Si tratta di un elenco sicuramente incompleto: uno studio
sistematico della presenza di Dante in March resta ancora da fare. In secondo
luogo, vedremo di cogliere un’influenza dantesca per così dire indiretta, che
riguarda la modalità stessa della poesia marchiana: la sua lingua e la messa in
discussione, la messa in crisi, del genere stesso della lirica.
I.
II, 37-40
Lo poch dormir magres’al
cors m’acosta,
dobla·m l’engyn per
contemplar Amor;
lo cors molt gras,
trobant-se dormidor,
no pot dar pas en
aquest’aspra costa.
40 costa: ‘salita’. Su questo verso c’è
stata un’inutile polemica da parte di Ferraté nei confronti di Archer e di
Terry, che hanno inteso costa nel
senso di ‘riva del mare’. Pagès pensa, secondo me giustamente, che si tratti di
una reminiscenza dell’erta roccia di Pg III
46-54 (v. 52, «Or chi sa da qual man la costa cala»; «Or qui sap de qual part
la costa cala», nella traduzione di Andreu Febrer): l’amore del poeta si affina
in un duro processo di espiazione.
XX, 1-8
Alguns passats donaren si a
mort
per escapar als mals que·l
món aporta
e per haver uberta ’quella
porta
on los
desigs tots vénen a bon port.
A mi no cal de aquest món exir
per encerquar aquell sobiran bé:
en vós és tot, e no·m cal dar-hi fe,
car veu mon hull e sent vós mon sentir.
1-4 Se
non sono pochi gli antichi che si dettero la morte per sottrarsi a mali
considerati peggiori, è del tutto eccezionale il caso di chi, togliendosi la
vita, meritò la salvezza eterna. Il caso eccezionale tuttavia esiste, ed è quello
di Catone l’Uticense: la fama di questo pagano suicida per la libertà fu
enorme, sia nell’Antichità che nel Medioevo; ma è solo Dante che in Pg I gli attribuisce la salvezza
nell’aldilà cristiano, facendolo inoltre custode del purgatorio. È unicamente
pensando al personaggio dantesco che possiamo spiegarci i vv. 3-4. Catone è
esplicitamente nominato in LVII, un componimento dedicato al suicidio: «Por de
pijor a molts fa pendre mort / per esquivar mal esdevenidor; / si bé la mort
ressembla cas pijor, / cell qui la pren la té per bona sort; / e de açò Cató
mostrà camí / e li mès nom hús de la libertat, / car de tot àls pot hom ésser
forçat / sinó ’n morir, qu’és en lo franch juhí» (vv. 1-8); più avanti, il
poeta sembra riferirsi nuovamente a Catone con concetti e espressioni che
ricordano da vicino l’apertura della poesia qui in oggetto: «Alguns passats que
voluntat iniqua / los féu morir, o l’oppinió vana, / aquests no llou, mas los
de penssa sana, / volents morir per fer lur arma riqua, / perdent un poch per
l’infinit atendre, / guanyant lo goig que al Fill de Déu costa» (vv. 33-38).
—, 29-32
E tardarà si Amor no·l revela
los
grans secrets qui·ls amadors pratiquen,
tals que sinó en cors gentils no·s fiquen,
obedients a Na Venus estela.
31 cors gentils: espressione, notoriamente,
più stilnovistica che trobadorica. Meglio ancora, ricorda If V 100, «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende» («Amor, qu’al
cor gentil ten tost se pren», nella traduzione di Febrer).
32 Na Venus estela: estela non è una zeppa metrica, né un’apposizione ridondante.
Venere compare diverse volte in March come la dea dei piaceri carnali; qui
invece si parla specificamente della stella di Venere, che infonde negli amanti
il buon amore. Credo che March avesse in mente la spiritualizzazione del cielo
di Venere e della sua influenza che fa Dante ad apertura di Pd VIII. Nello stesso
canto del Paradiso compare anche
l’espressione «folle amore», che sta per ‘amore carnale’: «Solea creder lo
mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore / raggiasse, volta
nel terzo epiciclo» (Pd VIII 1-3);
Febrer: «el foll amor». Come tutti sappiamo, O foll Amor (secondo me Amor
è qui maschile) è uno dei senhals di
March, che compare in nove componimenti.
—, 33-37
Sì com lo foch, quant és en
la canela,
mostra desig d’anar a ssa
espera,
ma voluntat hun moment no
espera:
tant
com mils pot, als vents dóna la vela
per arribar al
port molt desijat.
34 a ssa espera: cioè verso l’alto, verso
la sfera del fuoco, superiore a quella dell’aria, secondo la concezione
fisico-astronomica dell’Antichità e del Medioevo. Osserva Pagès che Dante, nel Purgatorio, «exprime une comparaison
analogue»: «Poi, come ’l foco movesi in altura / per la sua forma ch’è nata a
salire, / là dove più in sua matera dura, / così l’animo preso entra in disire,
/ ch’è molto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire» (Pg XVIII 27-32).
XVIII, 1-8
Lo jorn ha por de perdre sa claror
quant ve la nit qu’espandeix ses tenebres;
pochs animals no cloen les palpebres
e los malalts crexen de llur dolor.
Los
malfactors volgren tot l’any duràs
perqué
llurs mals haguessen cobriment;
mas yo qui visch menys de par en turment
e sens mal fer volgra que tost passàs.
3 Il v.
3 è ambiguo e può dare luogo a due interpretazioni opposte. L’aggettivo pochs può infatti significare sia
‘piccoli’ che, ovviamente, ‘pochi’. Nel primo caso, i piccoli animali non
dormono; nel secondo, pochi animali non dormono (cioè, la maggior parte degli
animali, tranne quelli che vivono di notte, dormono e riposano). I traduttori
oscillano tra le due possibilità, entrambe legittime. Questi versi sembrano
echeggiare, semmai anche capovolgendone il significato, un passo famoso con cui
si apre il IV canto dell’Inferno: «Lo
giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da
le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra» (If II 1-4). Almeno per Dante, quindi, la
notte porta il riposo agli animali, ma non al poeta.
XLVI, 9
Bullirà·l mar com la caçola
’n forn . . .
9 «De naribus eius procedit fumus, / sicut ollae
succensae atque ferventis. . . .
Fervescere facit quasi ollam
profundum / et mare ponit quasi vas unguentarium», Iob 41,12 e 23 (si sta parlando
del mostro Leviatano, che forse qui, in questo passo del Libro di Giobbe, è
semplicemente il coccodrillo); altre possibili fonti sono state segnalate da
Archer nel suo libro The Pervasive Image,
e da Miralles, Les comparacions marines,
che pensa a un’ eco da If XXI 7-21,
dove, in un’apocalittica comparazione, è la pece a ribollire densa
nell’arsenale di Venezia. A parte questo caso, si ricorderà come Rosa Laveroni
abbia sottolineato molto bene lo stretto rapporto tra il mare di March, un mare
molto diverso da quello dei trovatori e poi da quello di Petrarca, e il mare
tempestoso e minaccioso dell’Inferno
dantesco.
LXXVI, 5-8
Lo que dabans de tot vent me guardava
és
envers mi cruel plaga deserta.
6 Non
escludo che March ricordasse la «piaggia diserta» di If I 29 («plaja deserta» nella traduzione di Andreu Febrer).
In Dante «piaggia»
ha al tempo stesso il significato di ‘riva’ (per la presenza, nel
contesto, di acque) e di ‘terreno in salita’, mentre in March ha unicamente il
significato di ‘costa sabbiosa’.
LXXXVI
Si·m demanau lo greu turment que pas,
és pas tan fort que·m lleva·l dir qué passe,
y és d’admirar, passant, com no·m trespasse,
ingratitut portant-me·l contrapàs.
May retrauré de vostr’amor un pas,
puix en seguir a vós, honesta, medre;
y si rahó me fa contrast, desmedre,
y és-me lo món, sens vós, present escàs.
Passe, penant, un riu de mort lo dia,
y en ser per vós me dol fer
curta via.
Più
che essere un «joc de paraules» da accostare alla poesía cancioneril castigliana, come suggerisce Archer, questa esparsa è da inserire nella linea del trobar ric dei lirici catalani, come
Andreu Febrer e soprattutto Jaume March, che aveva dato prova del suo
virtuosismo metrico in alcune cobles
e negli inserti in versi del Llibre de
concordances. Se, come è probabile, contrapàs
è la rima ‘prima nata’, che ha funto da motore alle rime in -as / -asse (sei su dieci), e se, come credo, la parola è una reminiscenza
dantesca, essa potrebbe avere scatenato nel breve componimento gli altri tenui,
ma percepibili, echi da Dante.
2 pas tan fort: «experiència penosa»
(Archer).
March
ricordava il «pas ten fort», come si legge nella traduzione di Febrer di Pd XXII 123 («passo forte»
nell’originale dantesco), inteso da alcuni antichi commentatori, sia pure in
maniera erronea, come ‘la morte’? Si noti che il ten è un’aggiunta del traduttore al testo dantesco.
4 contrapàs: Bohigas sembra connettere il
termine alla danza: «si [el poeta] duu el pas,
[la dama] duu el contrapàs», cioè un
passo in senso contrario; il DCVB,
s.v., menziona questo luogo sotto l’accezione ‘passo indietro’ (il contrapàs è inoltre un movimento di
danza e il nome di un ballo); Pagès e Archer si astengono da qualsiasi
commento. La parola latina contrapassum
(da patior, non da passum ‘passo’) compare per la prima
volta nella traduzione medievale dell’Etica
nicomachea di Aristotile e fu poi ripresa da Tommaso d’Aquino e da altri autori
scolastici con riferimento alla legge biblica del taglione; in italiano contrapasso fu introdotto da Dante (If XXVIII 142); in catalano, prima che
da March, contrapàs era stato usato
ovviamente da Febrer nella traduzione della Commedia:
«Axí observa en mi lo contrapàs». Né il DCVB
né il DECLlC, s.v. pas, registrano questa accezione. Com’è
noto, in Dante il termine sta a significare la pena, applicata per analogia o
per contrasto, in espiazione di una colpa. Secondo me, visto anche il contesto,
è proprio al contrapassum, e non a
una figura di danza, che qui si allude. È ragionevole pensare che March si
ispirasse direttamente a Dante, benché non si possa escludere che fosse a
conoscenza di qualche fonte scolastica, anche di seconda mano, che trattava la
nozione. L’allusione sembra chiaramente ironica: l’amore, visto come una colpa,
viene ricambiato con l’ingratitudine. Intendo ingratitut come oggetto e contrapàs
come soggetto: l’anticipazione enfatica dell’oggetto costituito da nomi
denotanti sentimenti ricorre più volte con portar
(«si donchs delit en l’altre no li porta», lxvii
14; «lo vostre bé fastig porta prop ssi», xci
74; «delits portants e d’altres que m’enugen», xcii 64; «car un bé poch entre grans mals dol porta», xciv 70; ecc.).
6 honesta: con riferimento alla dama, è un
aggettivo raro nei trovatori (non è nemmeno registrato nel repertorio del
lessico cortese di Cropp), mentre è frequente presso gli stilnovisti, Dante e
Petrarca.
9 passe . . . un riu de mort: ‘un fiume di morte, un
mare di dolore’, dove passe è sia
‘attraverso’ che ‘soffro’. Secondo Pagès, la menzione dell’Acheronte sarebbe
un’eco dantesca, anche se in realtà, ammesso che dell’Acheronte veramente si
tratti, March poteva rifarsi a una qualsiasi fonte classica. È tuttavia probabile,
visti i precedenti echi da Dante, che March avesse qui in mente proprio il
fiume infernale dantesco.
Anche sulla base di questi
pochi riscontri, mi pare che possiamo arrivare alla conclusione che March
doveva conoscere abbastanza bene la Divina
Commedia, che talvolta echeggia secondo le sue solite modalità di
trattamento delle fonti, in maniera cioè poco scoperta. Le implicazioni di
questo grande modello sulla sua opera, tuttavia, vanno secondo me ben al di là
di singole riprese testuali, di immagini, di comparazioni (la Commedia abbonda di lunghe comparazioni,
come le poesie di March) o di concetti. Io credo che si possa legittimamente
ipotizzare l’influenza di Dante su March per due aspetti che sono certamente
molto più importanti dei vari echi che si colgono nel suo canzoniere. Questi
aspetti riguardano la scelta della lingua e l’idea stessa di poesia che emerge
dal complesso dell’opera di Ausiàs March.
Come
tutti sappiamo, March è il primo lirico catalano a comporre nella sua lingua e
non in provenzale, ma le ragioni di questa scelta non mi sembra che siano state
approfondite a sufficienza. È improbabile che alla sua base esistano
motivazioni sociologiche: un poeta aulico avrebbe optato a un certo punto per
la lingua della borghesia, alleata della Corona, abbandonando finalmente
l’aristocratico hortus conclusus e il
suo idioma artificiale. Poco
plausibile è anche l’idea che il catalano si sia imposto anche in poesia per il
prestigio di cui godeva, ma già ormai da un secolo e mezzo, la tradizione della
prosa (le cronache, Llull). E del tutto assurdo è pensare che March scrivesse
nel suo volgare perché non si rivolgeva che a se stesso, ipotesi smentita dalla
sua notorietà in vita e dalla sua influenza subito dopo la sua morte. Secondo
Nadal e Prats, tutto sommato, «era previsible . . . que Ausiàs
. . . escrivís la seva poesia en català»; i due stessi studiosi,
tuttavia, sottolineano come «allò que sorprèn en Ausiàs March és la radicalitat
d’una opció lingüística que el distingeix de tants contemporanis indecisos que
alternen una i altra llengua o escriuen en una barrija-barreja penosa».
Una
possibile spiegazione alla svolta linguistica di Ausiàs March può essere forse
trovata proprio nella circolazione in area catalana dei nuovi classici volgari,
soprattutto italiani, a partire dalla fine del quattordicesimo secolo, la cui
conoscenza avrà messo gradualmente in crisi una lingua letteraria, il
provenzale catalanizzato (o il catalano provenzaleggiante), che doveva essere
ormai sentita come convenzionale e improduttiva. Dall’Italia insomma viene
l’esempio che anche un nuovo volgare, un volgare con credenziali meno
prestigiose del provenzale, può servire come grandioso veicolo della lirica e,
più in generale, di ogni forma di poesia. Ed è probabile che determinante sia
stata a questo riguardo proprio la traduzione della Commedia, nonostante la lingua ancora fortemente provenzaleggiante
di Febrer.
La
Commedia dantesca doveva apparire, ai
lettori valenzani e catalani dei primi decenni del Quattrocento, come un
indiscutibile capolavoro, scritto nella lingua nativa del suo autore, e che
portava per la prima volta proprio questa nuova lingua volgare alla ribalta
internazionale. March ha avuto l’intelligenza di capire che la letteratura
italiana aveva messo in crisi le lingue, per così dire, ‘classiche’ del
Medioevo, cioè il provenzale e il francese: le uniche due lingue medievali
veramente ‘classiche’, perché né il galego-portoghese né il castigliano erano
mai state percepite come tali oltre i Pirenei. E, sulla base di questo esempio,
March scrive nella sua parlata valenzana.
La
coincidenza di date è significativa: Febrer termina la sua versione nel 1429,
ma è ragionevole pensare che parti della traduzione (singoli canti o le prime
due intere cantiche) circolassero già alcuni anni prima. March comincia a
comporre i suoi dictats non prima del
1425, alcuni pensano non prima del 1430. E qui si aprirebbe un’altra questione,
tutta ipotetica, ovviamente. Il fatto è che io non conosco nessun poeta, nessun
grande poeta, che abbia cominciato a scrivere poesie, e poesie complesse e
perfette come quelle di March, intorno ai trent’anni. Le biografie raccontano
che March, terminato il suo glorioso servizio militare al servizio di Alfonso,
si ritirò nei suoi feudi e si dette alla poesia, quasi come se si trattasse di
un passatempo. Questo ovviamente è assurdo. Io credo che dovremmo azzardare
l’ipotesi che nelle sue mocedades
letterarie March abbia praticato la lirica provenzaleggiante, e che verso la
fine degli anni venti abbia compiuto la svolta verso il valenzano, rifiutando
la sua produzione precedente, che sarà andata perduta. E, per i motivi che ho
detto prima, è molto probabile che sia stata proprio la Commedia a dare la spinta a questa svolta: peraltro, la Commedia tradotta da un poeta, più
anziano, che sia per Jordi de Sant Jordi che per March doveva avere il carisma
di un maestro.
L’altro
aspetto su cui forse è percepibile l’influenza del modello della Commedia riguarda il ‘tipo’ di poesia,
cioè il genere letterario che viene fuori dal canzoniere di Ausiàs March.
Quando noi diciamo che March è il più grande poeta ‘lirico’ del Quattrocento
europeo diciamo certamente qualcosa di vero, in modo da distinguerlo dai poeti
che in quel secolo componevano poesia narrativa, allegorica, ecc. Ma March è
ancora un vero poeta lirico, o la lirica, nelle sue mani, si sta trasformando,
si è trasformata, in qualcosa d’altro? Certamente l’immagine di lirica che ci
propone l’opera di March è ormai lontanissima da quella dei trovatori, dei francesi,
di Petrarca. A parte la presenza di contenuti morali e filosofici, che aumenta
con proporzione quasi geometrica nella parte finale del canzoniere, vorrei
ricordare solo un dato formale, riguardante la metrica. Salvo che nei poemetti
CXXVII e CXXVIII, Ausiàs March usa esclusivamente metri strofici, cioè lirici:
nel caso degli stramps, metri lirici
senza rima. Tuttavia, io non conosco nessuna canzone, nessuna poesia lirica
medievale, che vada avanti per centinaia di versi. I limiti ‘spaziali’ della canzone,
il fatto che non possa superare un certi numero di versi, è una delle regole
più ovvie di questo genere metrico. March distrugge la lirica con un’operazione
apparentemente elementare: allungando all’infinito le sue ‘canzoni’ (che non
sono più canzoni...), fino a raggiungere centinaia di versi. È chiaro che non
siamo più nell’ambito della lirica, ma del poemetto filosofico o morale, anche
se, però, la forma metrica è ancora quella della canzone. Pure in questo, è
possibile che la Commedia di Dante
abbia rappresentato un modello. Com’è noto, la Divina Commedia non ha nessun precedente nei generi letterari
medievali, e non ha nemmeno (né poteva avere) nessun seguito. Di fatto, la Commedia, come ha scritto recentemente
un dantista inglese, attraversa tutti i generi e nello stesso tempo mette in
crisi l’intero sistema dei generi letterari medievali. Ma c’è un altro aspetto
importante della Commedia: nonostante
il titolo (il termine rinvia a un genere ‘mezzano’ o ‘basso’, non al genere
alto della tragedia, che per Dante coincideva con la canzone, con la poesia
lirica), la Divina Commedia propone
un modello di poesia ad altissimo grado di letterarietà, che non è, tuttavia,
poesia lirica. Dante ha insegnato che la poesia alta, la poesia sublime, può
essere praticata anche al di fuori del genere della poesia lirica, cioè,
ripeto, della canzone, che per tutto il Medioevo volgare ha rappresentato la
forma più alta dell’espressione poetica.
Nella
sua opera sistematica di contaminazione della lirica con la riflessione
filosofica e morale (e, se pensiamo alle lunghe comparazioni, perfino
con componenti narrative),
Ausiàs March poteva trovare un solo precedente alle sue spalle, quello di
Dante.
Conferenza inedita
tenuta nel 1997 all’Universitat de València