I trovatori e la corona d’Aragona.

Riflessioni per una cronologia di riferimento

Stefano Asperti

 

 

 

 

 

1.

È unanimemente riconosciuta da filologi e storici della letteratura e della lingua l’importanza strutturale che riveste la lirica trobadorica entro la letteratura catalana medievale sino all’estremo del Medio Evo [1]: la fedeltà sostanziale al codice poetico ereditato dai poeti in lingua d’oc, tanto negli aspetti espressivi che in quelli formali, continuamente rivitalizzato ma non mai abbandonato costituisce la cifra distintiva della tradizione lirica catalana sino all’epoca di Ausiàs March [2]. Ma avendo di fronte questa continuità così forte e salda, che fa supporre un’eredità organicamente costituita, risaltano alcuni aspetti problematici nel rapporto iniziale fra Catalogna e trovatori, in special modo evidenti se si confronta la situazione di questo angolo di Penisola Iberica con quella dell’Italia settentrionale, altra regione nella quale la lirica dei trovatori giocò un ruolo essenziale a partire dalla fine del XII secolo e poi nel corso di tutto il XIII:

 

— esistono due soli canzonieri lirici superstiti dedicati ai trovatori compilati in Catalogna, V, assai antico essendo stato esemplato nel 1268, e Sg, che è invece tardo, compilato nella seconda metà del Trecento. Entrambi sono abbastanza piccoli; risultano importanti, dal punto di vista della storia della ricezione trobadorica, per la qualità e l’orientamento della scelta antologica più che per la sua ricchezza o eccellenza testuale. Di essi, Sg è un manoscritto anomalo, dal momento che l’intera sua ultima sezione è dedicata ai poeti della Scuola Tolosana del Trecento; esso si presenta in questo come un’eccezione rispetto all’ordinamento degli altri canzonieri trobadorici, che mette tra l’altro in discussione il criterio, di tipo essenzialmente ‘codicologico’ che è alla base della classificazione dei trovatori censiti nelle bibliografie di Bartsch prima e di Pillet-Cartsens poi (ossia: sono considerati ‘trobadorici’ i testi che si trovano nei ‘canzonieri trobadorici’ e su questo criterio viene redatto il canone degli autori; vengono inclusi anche testi certamente tardi, ivi comprese, ad esempio, le molteplici aggiunte negli spazi bianchi di R).

  

— il numero dei trovatori catalani è nel complesso limitato [3] e il numero di testi loro attribuiti non estesissimo [4]. Ma questo dato complessivo, già di per sé ridotto, va ulteriormente scremato: non pochi di questi sono poeti solo occasionali, a cominciare dallo stesso Pietro III, e autori di un unico testo (Pietro, appunto, e accanto a lui il figlio Federico di Sicilia [Frederic III] e Pons Uc d’Empúries) e partecipano a dibattiti e tenzoni promossi da trovatori di più sicura identità (Uguet de Mataplana, per esempio, o il «Bort [bastardo] del rei d’Aragó»). C’è inoltre da dire che quanto a molti di questi trovatori – e tra l’altro diversi dei più significativi, soprattutto tra gli autori delle prime generazioni, da Guilhem de Berguedà a Berenguer de Palazol a Guilhem de Cabestanh – non sappiamo con sicurezza dove abbiano svolto la loro attività: tra quelli appena nominati, in particolare Guilhem de Berguedà fu con sicurezza a lungo in esilio lontano dai propri territori, a Nord dei Pirenei e in Castiglia, mentre non può dirsi affatto garantito che Guerau de Cabrera abbia composto in Catalogna e non piuttosto in Provenza, come sembra anzi assai più probabile, il suo celebre ensenhamen indirizzato al giullare Cabra [5]. Infine, benché siano numerosi i trovatori in contatto con i sovrani della Casa di Barcellona, dall’epoca di Marcabru sino a quella di Guiraut Riquier, questi rapporti si rivelano in definitiva occasionali per quanto riguarda la Catalogna: non abbiamo cioè niente di comparabile alla presenza di trovatori occitanici attestati presso molteplici centri italiani dalla fine del XII secolo sino alla metà del XIII (Raimbaut de Vaqueiras, Aimeric de Peguilhan, Uc de Saint-Circ, Elias Cairel, solo per fare qualche nome tra i più significativi) [6].

 

I limiti di una valutazione seccamente quantitativa sono evidenti e ciononostante i dati non mi paiono trascurabili: a conti fatti l’incidenza della componente catalana rispetto al complesso del movimento trobadorico appare contenuta. Anche sul piano qualitativo – con le eccezioni di Cerverí, figura oltremodo singolare, e di un altro autore fortemente caratterizzato in senso individuale quale Guilhem de Berguedà – non si può dire che i trovatori catalani s’impongano tra i massimi esponenti della tradizione trobadorica.

Non mancano le spiegazioni anche certamente verosimili di questo stato di cose. In particolare per quanto riguarda i canzonieri si può pensare che gravi perdite abbiano decimato i codici trobadorici compilati o conservati in Catalogna. Si tratta però di risposte, in sé del tutto legittime, che finiscono con l’aggirare il problema, lasciandolo insoluto. Preferisco seguire un percorso diverso, partendo da alcuni dati già recepiti nel regesto sommario di poeti e manoscritti: i due canzonieri V ed Sg vennero copiati in ambienti connessi con la corte regia [7] e così pure, sull’altro versante, con l’esclusione dei rossiglionesi (Berenguer de Palazol, Guilhem de Cabestanh, Pons d’Ortafàs), pressoché tutti i trovatori sopra elencati appaiono in stretto rapporto coi sovrani e con la cerchia di corte (Pons de la Garda, Cerverí de Girona, Jofre de Foixà, Pons Uc d’Empúries, Frederic III) ovvero si segnalano come nemici personali del re (Guilhem de Berguedà). La presenza di un ambiente riconducibile ai sovrani ricorre dunque, in forma continua, sull’arco di più di un secolo, tra XII e XIII, e riemerge con rinnovata forza a metà del XIV: è un tratto caratterizzante e in qualche misura distintivo della tradizione catalana dei trovatori in lingua d’oc ed è questo aspetto che ho inteso mettere in risalto inserendo la ‘Corona d’Aragona’ nel titolo della presente comunicazione. La dizione è in qualche misura impropria e necessita di una precisazione. Non si può stabilire nessun rapporto concreto tra lirica cortese e struttura politico amministrativa dello stato catalano-aragonese, con l’eccezione, forse, per un brevissimo periodo all’epoca del re Pietro III [8]. Tuttavia, rispetto a un’impostazione di tipo più prettamente storico-geografico (‘i trovatori in Catalogna’, secondo il venerabile schema di Milà i Fontanals [9]), ovvero nazionale (‘i trovatori nati in Catalogna’, così come nella seconda parte del volume di Milà e nella più recente trattazione di Riquer), mi premeva porre in risalto ad un tempo sia la figura, anche istituzionale, dei sovrani catalano-aragonesi e dell’ambiente ad essi più prossimo, costituente o meno una vera e propria ‘corte’, sia la necessità di considerare un quadro di riferimento che non può essere circoscritto alla sola Catalogna e che ingloba anche quelle regioni del Sud della Francia sulle quali si estendeva l’influenza, reale o potenziale, dei re d’Aragona – conti di Barcellona. Attraverso questo angolo visuale e una griglia sommaria di riferimento scandita dai regni dei sovrani coinvolti (Alfonso II, Pietro II, Giacomo I, Pietro III) e dagli avvenimenti salienti dell’epoca (almeno: battaglia di Muret, 1213; trattato di Parigi del 1229 e fine della Crociata albigese; trattato di Corbeil del 1259; guerra del Vespro, 1282-85) si cercherà di proporre alcune considerazioni preliminari su due aspetti rilevanti e complementari: la valutazione della poesia dei trovatori da una prospettiva ‘meridionale’, catalana, e il giudizio sulla Corona d’Aragona e sui sovrani catalano-aragonesi nella tradizione trobadorica.

 

2.  Alfonso II

Il regno di Alfonso II, nato nel 1154, re dal 1162 (e dal 1166 anche conte di Provenza), morto nel 1196, è tra tutti il momento forse meglio indagato, certo quello maggiormente presente all’attenzione degli studiosi anche non catalani [10]. In quei decenni, dopo le fugaci apparizioni di Marcabru e di Peire d’Alvernhe ed avendo il rossiglionese Berenguer de Palazol come apripista, la lirica dei trovatori conquista in terra catalana uno spazio che risulterà poi definitivo. Il regno di Alfonso ci porta però oltre i confini della Catalogna. È questo infatti il momento di massima proiezione occitanica della politica della corona d’Aragona. Alfonso trascorse gran parte del tempo a Nord dei Pirenei, dove uno stato di guerra pressoché continuo lo vedeva impegnato contro il potente vicino, il Conte di Tolosa; è altresì da quest’epoca che la sovranità esercitata dalla Casa di Barcellona sulla Contea di Provenza entra in gioco come ulteriore fattore di unificazione di queste regioni all’interno di un sistema culturale meridionale d’espressione volgare, legato ai valori e alle forme letterarie cortesi. Alfonso stesso si segnalò come uno dei maggiori mecenati dell’ultimo terzo del secolo, omaggiato da trovatori quali Giraut de Bornelh, Folquet de Marselha, Arnaut de Maruelh, Peire Vidal, Peire Raimon de Tolosa – ossia, di fatto, molti dei massimi ‘professionisti’ del suo tempo –, e si cimentò personalmente nell’arte poetica. Il favore dimostrato da Alfonso verso la poesia dei trovatori e il fatto di averla anzi adottata egli stesso manifestano, all’altezza della fine del XII secolo, l’integrazione fra le terre occitaniche e lo Stato catalano-aragonese attraverso la persona del sovrano; si può anzi presumere che l’apertura ai trovatori faccia parte di un progetto politico di legittimazione come signore occitanico perseguito da Alfonso nel quadro dello scontro con il conte di Tolosa per la supremazia in Linguadoca e in Provenza. La poesia dei trovatori (come fatto di stile, di cultura e non ultimo di lingua) venne così adottata ‘ufficialmente’ dal re-conte Alfonso II con una scelta opposta a quella operata alcuni decenni dopo da Federico II imperatore in Sicilia con la promozione di una nuova scuola ‘italiana’ [11]: Alfonso mira all’integrazione nella tradizione e nel suo sistema letterario, non a una rottura ed alla creazione di una tradizione diversa e antagonistica. L’operazione, condotta anche attraverso la persona simbolica del sovrano, stabilì un vincolo fortissimo, forse in definitiva determinante, fra espressione poetica e koiné d’oc

Alfonso è così passato alla storia come il re-trovatore, «Anfos, aquel que trobet»; l’associazione fra la sua figura e la tradizione lirica cortese non ha quasi eguali, sebbene il giudizio dei posteri, quantomeno nella prospettiva degli estensori delle biografie trobadoriche (dovute in larga parte ad Uc de Saint-Circ), non sia poi esente da critiche anche pungenti, in realtà indirizzate soprattutto verso il re e governante [12]. Vorrei aggiungere un solo dettaglio al quadro, già assai ricco, tracciato da Martí de Riquer e Angelica Rieger, facendo ricorso alla testimonianza non di uno degli amici e protetti del sovrano, ma di uno dei suoi peggiori avversari, il temibile Guilhem de Berguedà. In Reis, s’anc nuill temps foz francs ni larcs donaire (BdT 210,17), testo composto nel 1191, Guilhem attacca violentemente Alfonso proprio prendendo spunto dalla sua supposta e, possiamo presumere, vantata ‘cortesia’: «Reis, s’anc nuill temps foz francs ni larcs donaire / ni encobitz per las autrui moillers [...]» (cfr. Appendice 1). Il conflitto è tutto interno al sistema di rapporti del sistema feudale e mette in questione la natura della signoria’ esercitata da Alfonso. Ciò che è particolarmente interessante nella presente prospettiva è il fatto che Guilhem de Berguedà si fondi su un’immagine e su un sistema lessicale ed espressivo prettamente cortesi, di pura matrice trobadorica: il re è presentato come la negazione del paradigma di generosità e di fedele lealtà verso la dama su cui si fonda l’immagine del gentiluomo, il suo ‘tradimento’ politico-istituzionale è espresso metaforicamente in termini di tradimento nei confronti della donna e di rottura dell’impegno assunto nei suoi confronti (come recreantise, direbbero i trovieri francesi); colui che si era presentato come amante cortese ora non può aspettarsi attenzioni da donne se non per motivi di interesse. La struttura sarcastica e antifrastica viene mantenuta con coerenza per tutto il componimento, sino alla chiusura di indirizzo al conte di Tolosa. L’utilizzazione polemica, nei termini ora descritti, di questa particolare immagine cortese’ del re Alfonso ce ne conferma l’importanza intrinseca e la pertinenza pubblica’ e rende anche percepibile il suo esatto riconoscimento, in ottica positiva o negativa, presso i contemporanei.

 

3.  Pietro II

Se possiamo dunque considerare come dato acquisito nella storiografia letteraria l’importanza di Alfonso II e del suo ambiente nel processo di affermazione e di diffusione della poesia trobadorica – e sono semmai da approfondire e da chiarire l’esatto ruolo giocato e la valutazione che ne diedero i trovatori che lo attorniarono – non altrettanto si può dire per il figlio e successore Pietro II ‘il Cattolico’ (I come Conte di Barcellona), che è figura di secondo piano nella storia letteraria dei trovatori. Con la sola eccezione dello studio ‘di fondazione’ di Milà i Fontanals, dove gli è dedicato un corposo capitolo, nelle trattazioni più recenti Pietro viene quasi ignorato quale protettore o punto di riferimento per i trovatori [13]. Tale giudizio molto restrittivo stupisce già ad una prima considerazione del personaggio. Il regno di Pietro, che va dal 1196 al 1213, non è breve ed è tutt’altro che privo di contatti con l’Occitania, anche prima delle ben note e tristi vicende legate alla Crociata albigese (basti anche solo pensare all’acquisizione di Montpellier attraverso il matrimonio con Maria, erede dell’ultimo signore indipendente della città, Guglielmo, morto nel 1202). Si ha l’impressione che nella valutazione globale dei rapporti di Pietro col mondo occitanico e in ultima analisi specialmente coi trovatori abbia pesato negativamente e in maniera decisiva la sconfitta di Muret. Il disastro militare e politico, con le sue nefaste conseguenze sulla civiltà meridionale, ha come ‘cancellato’ Pietro dalla storia dei trovatori e annullato o drasticamente ridotto il suo ruolo. Il giudizio così passato in giudicato è quasi anticipato nelle biografie antiche relative a Guilhem de Cabestanh: i protagonisti – Guilhem stesso, Ramon de Castell-Rosselló, Soremonda – e gli avvenimenti allusi sono più probabilmente da ricondurre all’epoca di Pietro [14], ma in tutte le versioni del racconto è Alfonso, il ‘re-trovatore’ che si assume il compito di vendicare i due amanti, agendo come garante istituzionale della cortesia.

In realtà, se Alfonso II fu indubbiamente un punto di riferimento di primaria importanza nella sua epoca – gli anni 1180-1196 –, va chiarito che il ruolo di Pietro non appare sostanzialmente inferiore nei due decenni seguenti. Egli è menzionato nelle biografie di Uc de Saint Circ (che dice di essere stato presso di lui), di Ademar lo Negre (dove compare in unione col conte Raimondo di Tolosa) e di Raimon de Miraval (vida e razos), dove gioca un ruolo di primo piano anche prima dei tragici eventi della Crociata albigese. Gli sono dedicate ben sette canzoni di Aimeric de Peguillan [15] – un dato che da solo individua un protettore o referente riconosciuto e una frequentazione non occasionale –, molte di Pistoleta e meno numerosi componimenti di Peire Vidal, di Aimeric de Sarlat [16], di Guiraut de Calanso, di Guilhem Magret, di Elias Fonsalada (entrambi i superstiti di questo trovatore); nel 1213, quando si profila il suo intervento in favore del cognato Raimondo di Tolosa, Pons de Capduelh dedica a Pietro d’Aragona l’importante canzone di crociata So c’om plus vol e plus es volontos (375,22), ricca di spunti anti-clericali: il sovrano, da poco vincitore degli arabi di Spagna, appare come il punto ideale di riferimento di una sensibilità cavalleresca cristiana, in termini che ritroveremo, a cinquant’anni di distanza, nell’ultima parte del regno di Giacomo. È ancora da ponderare l’ipotesi avanzata da Shepard e Chambers nell’introduzione della loro edizione di Aimeric de Peguilhan relativamente alle due canzoni dedicate ad Eleonora, sorella di Pietro e sposa di Raimondo VI di Tolosa: considerati gli stretti rapporti di Aimeric col re e quelli dubbi e quasi nulli col conte, queste canzoni potrebbero essere state indirizzate alla principessa quando ancora si trovava presso il fratello e non a Tolosa, dunque fra il contratto di matrimonio, nel 1200, e la sua celebrazione, nel 1204 [17]. Il suggerimento induce anzi a riconsiderare gli altri componimenti indirizzati o dedicati a Eleonora, ‘regina di Tolosa’, più facilmente databili a prima dell’inizio della Crociata albigese o quantomeno a prima di Muret.

A conti fatti, dunque, i trovatori che ci appaiono in contatto con Pietro II sono numerosi, in sostanza quasi tutti quelli attivi nell’Occitania meridionale in quegli anni. Non si tratta, in molti casi, delle figure di assoluto rilievo che avevano omaggiato il padre Alfonso ed è vero che il panorama della poesia trobadorica in rapporto con Pietro non eguaglia lo splendore dell’età alfonsina. In realtà i segni di crisi, che provocano un generale appannamento del movimento trobadorico, sono diversi e non riportabili in particolare al nuovo sovrano aragonese: a partire dagli anni ’90 scompaiono in successione alcuni grandi protettori e si esaurisce l’attività di molti trovatori prestigiosi [18]; dall’inizio del secolo successivo si avverte la crisi del sistema plantageneto nel continente, mentre si smarrisce una tradizione già relativamente antica e di una certa importanza – per quanto è dato di capire – come quella della ‘corte del Puoi’ [19]. Pare quasi collassare l’intera società cortese che aveva promosso e favorito il ‘grande canto’ in lingua d’oc e si offusca ed indebolisce l’immagine sino a quel momento vincente offerta su scala europea dalla poesia dei trovatori. La crisi incipiente è dunque forse non innescata, ma piuttosto amplificata – a dismisura – dalla Crociata albigese e dalle sue conseguenze [20]. Essa comunque non riguarda solo la Catalogna – ed anzi la tocca meno profondamente di altre regioni, il Limosino per esempio – né pone in discussione, per lo meno sino alla battaglia di Muret, la posizione dei sovrani catalano-aragonesi quali figure centrali fra i protettori della lirica profana.

Come già per Alfonso II, segnalo qui un testo relativamente poco noto e d’argomento non amoroso, ma politico(-guerresco) che mi pare emblematico del momento e della considerazione accordata al sovrano di Catalogna-Aragona: il sirventese di Peire de Bragairac relativo alla presa di possesso di Montpellier, Bel m’es cant aug lo resso (BdT 329,1), composto intorno al 1204 (cfr. Appendice 2[21]. Come osserva giustamente Chambers il testo «expresses warlike emotions reminescent of Bertran de Born»; il debito formale è evidente in una serie nutrita di formule ed anche nell’annotazione che «war brings out the generosity of the rich nobles, while in time of peace they can think of nothing but resting and eating» [22]. La ripresa formale da Bertran de Born non è da sottovalutare a quest’altezza cronologica e non è circoscrivibile al solo aspetto stilistico: dei grandi signori d’Occitania è Pietro II quello cui si può adattare un formulario e, con esso, trattandosi essenzialmente di forme simboliche, già di per sé eloquenti, un bagaglio di valori concepito da Bertran in connessione con i grandi principi Plantageneti (esaltazione del cavaliere, manifestazione di baldanza guerresca). L’esempio è, a quanto mi consta, isolato e, ciò che è ancor più significativo, non verrà ripreso durante il periodo tragico della Crociata albigese (con l’eccezione di occasionali e limitate utilizzazioni in Gui de Cavaillon). Il fatto infine che Peire de Bragairac abbia composto il suo sirventese adottando lo schema metrico-rimico e, presumibilmente, la musica di una canzone di Peire Vidal dedicata proprio al padre di Pietro, Alfonso II (Per ces dei una chanso, BdT 364,34) [23], ribadisce il rapporto di continuità che si stabilisce tra i due sovrani di Catalogna-Aragona nel solco della tradizione cortese trobadorica. Pietro rinnova la figura di mecenate e protettore; generoso sin oltre il limite della prodigalità, tanto da lasciare le finanze dello stato in condizione di grave dissesto come ricorda più volte il figlio Giacomo nel Llibre dels feyts [24], egli può incarnare anche l’ideale cavalleresco del combattente e condottiero, impegnato di volta in volta nella difesa dei propri interessi feudali (Peire de Bragairac), in Spagna contro gli arabi, a Tolosa contro Simone di Montfort (Raimon de Miraval, Pons de Capduelh).

Diverse conferme al quadro delineato giungono dall’articolata produzione di Raimon (o Ramon) Vidal, originario di Besalú (in provenzale Bezaudun) ed attivo più probabilmente fra gli ultimi anni del XII secolo ed i primi decenni del XIII [25], che affianca la trattatistica grammaticale alla precettistica cortese. In particolare, l’attenzione che Raimon accorda al problema istituzionale del ‘giullare’, il cui scopo è quello di formare la personalità del gentiluomo cortese, il conoissen (il ‘saggio’, colui che ‘conosce’ e ‘sa applicare’ le regole di vita), termine sul quale si insiste in forma quasi ossessiva in Abrils issi’e mays intrava, ha senso solo in una società cortese ormai sviluppata, in cui la sensibilità collettiva conferisce importanza preminente alle buone maniere’ ed alla letteratura che è espressione dei valori laici della civiltà cavalleresca [26]. Si registra, tra l’altro, una notevole concordanza, cui si può attribuire valore quasi simbolico, fra il sistema delle corti meridionali descritto da Raimon Vidal in Abril issi’e mays intrava e quello che troviamo appena schizzato nella vida di Raimon de Miraval [27]. E ancora: il giudice di So fo el temps, Uc (Uguet, Huguet) de Mataplana, che fu probabilmente fra i mecenati di Raimon Vidal, è a sua volta al centro di una serie importante di contatti con altri personaggi rilevanti del tempo, primo fra tutti Blacatz, signore provenzale e tra i massimi protettori di poeti in quella regione [28].

In sintesi e tirando le somme. Sino a Muret e quindi per tutto il regno di Pietro II si può ritenere che la Catalogna appartenga di diritto e a pieno titolo ad un ‘sistema’ di civilizzazione cortese e di diffusione della poesia dei trovatori che è incentrato sull’area occitanica, che ingloba la Catalogna appunto e l’Italia nord-occidentale e che si irradia ancora con forza in direzione della Francia del Nord e della Penisola Iberica. Lo statuto di mecenati ed il prestigio tra i trovatori conseguito da Alfonso e Pietro corrispondono ad una forte presenza istituzionale nel Sud della Francia. Con Pietro più ancora che con Alfonso si delinea un effettivo predominio catalano su Linguadoca e regione tolosana, concretizzatosi in estremo ed in maniera effimera negli accordi di vassallaggio cui si piegò lo stesso conte di Tolosa sotto l’incalzare dei Crociati anti-albigesi, all’inizio del 1213. È all’epoca di Pietro e a questa preponderanza catalano-aragonese che ritengo faccia allusione la celebre e più volte commentata tenzone fra Albert e Monje, trovatori entrambi di incerta identificazione (il primo è forse Albertet de Sestaro), nella quale si discute della supremazia fra Catalani e Francesi nei termini seguenti:

 

Monges, cauzetz, segon vostra siensa,

qual valon mais, Catalan ho Franses?

E met de sai Guascuenha e Proensa

e Lemozi, Alvernh’e Vianes,

e de lai met la terra dels dos reis;

e quar sabetz d’els totz lur captenensa,

vueil qe.m diguatz en cals plus fis pretz es. [29]

 

Si può anzi ragionevolmente supporre che solo le vicende storiche legate al disastro meridionale di Muret (1213) impedirono che attraverso Pietro e secondo forme diverse dai progetti del padre Alfonso si affermasse in pianta stabile tale predominio della Casa di Barcellona a Nord dei Pirenei e che il peso specifico della componente catalana nella civiltà trobadorica diventasse superiore a quello che è oggi possibile accertare.

Questa conclusione va ripresa su un piano storico-culturale più ampio. T. N. Bisson, ragionando intorno alla storiografia di provenienza monastica, ha applicato la definizione di «South Frankland» a «a vast region straddling the Pyrenees which lacked any more specific common identity before 1200» [30]: una ‘terra di mezzo’ occitano-catalana – il territorio che secondo Albert ‘non appartiene’ ai ‘due re’ –, corrispondente grosso modo all’antica Gothia, dai connotati non sempre ben definiti e però unificata da una serie di caratteri originari persistenti e da strutture sociali almeno inizialmente simili. La Catalogna appartiene a questa «South Frankland» e in quanto tale partecipa a pieno titolo, vorrei dire ‘di diritto’, nella seconda metà del XII secolo e sin oltre la soglia del XIII, all’affermazione della scuola trobadorica. I tempi di irradiazione della moda trobadorica e di suo radicamento in Catalogna vanno di pari passo con altre regioni del Mezzogiorno di Francia; il Rossiglione fa la sua comparsa nelle liriche dei trovatori con Berenguer de Palazol contemporaneamente alla Provenza di Raimbaut d’Aurenga [31].

Ma se è così, la sconfitta di Muret ha conseguenze di portata in qualche misura superiori a quelle correntemente indicate rispetto alla Catalogna: essa segna non solo la fine di un progetto feudale di matrice ancora alto-medievale (l’espansione del dominio della Casa di Barcellona in Linguadoca e Tolosano partendo dal Rossiglione e dalla Provenza), ma anche l’inizio di una più precisa articolazione interna della «South-Frankland» e quindi, ‘in positivo’ e per l’aspetto che qui interessa in rapporto con la poesia lirica cortese, dell’assunzione di una più chiara ed autonoma definizione dell’identità culturale della Catalogna basso-medievale, processo che si concretizzò apparentemente nel corso del lungo regno di Giacomo I. È questo aspetto che si suggerisce qui di prendere in considerazione, intendendo la poesia dei trovatori come fenomeno artistico rilevante anche sul piano culturale, in quanto portatore di ‘forme simboliche’, nei termini sopra chiariti a proposito di Peire de Bragairac; un’importanza ulteriormente accentuata, nel nostro caso specifico, in ragione della speciale, privilegiata relazione con i trovatori stabilita da Alfonso II e non interrotta, a quanto consta, da Pietro II.

 

4.  Giacomo I e Pietro III

La verifica della permanente presenza di un forte vincolo coi trovatori negli anni di Pietro II accentua l’impressione di marcata differenziazione, in termini di discontinuità e quasi di rottura, che contraddistingue il regno di Giacomo I, o quantomeno la sua prima parte, sino all’affermazione di Cerverí de Girona alle soglie degli anni 1260.

Giacomo I è passato alla storia letteraria dei trovatori associato ad un’immagine nel complesso negativa, creata soprattutto dalle menzioni presso alcuni trovatori occitanici, in particolare di origine tolosano-linguadociana, i gli rimproverano l’indisponibilità ad impegnarsi a Nord dei Pirenei contro i Francesi, lasciando così invendicata la morte del padre a Muret [32], rinnegando le tradizioni della casata ed in particolare dei due predecessori e rinunciando alle eredità occitaniche (e tra l’altro, in particolare, intorno al 1245, alla possibile rivendicazione sulla Provenza) [33]. All’incirca per tre decenni, dal raggiungimento dell’età adulta e sin ben entro gli anni 1250, Giacomo compare prima come destinatario di appelli accorati e poi di critiche anche aspre e di giudizi denigratori: ricordiamo almeno i nomi di Peire Basc, Bernart Sicart, Bonifaci de Castellana, Guilhem de Montanhagol, Bernart de Rovenac [34]. È da distinguere il giudizio di Sordello nel sirventese sui ‘tre diseredati’ (Puois no·m tenc per pajat d’amor, BdT 437,25) e nel compianto in memoria di Blacatz (Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so, 437,24), testi della seconda metà degli anni 1230 percorsi da una vena di forte moralismo cavalleresco.

Così come il padre Pietro, peraltro identificato in passato come controparte di Giraut de Borneill nella tenzone Be me plairia senh’en reis (BdT 242,22), Giacomo non si guadagna un posto, per quanto piccolo, tra i trovatori provenzali (mentre, si potrebbe aggiungere a completamento forse non inutile, la sua prima moglie, Eleonora di Castiglia, è l’unica regina d’Aragona a comparire seppure di sfuggita nell’onomastica trobadorica quale possibile – e forse probabile – dedicataria di un componimento, la canzone S’ieu anc jorn dis clamans, BdT 173,11, di Gausbert de Poicibot [35]). Il dato, che è senz’altro trascurabile a livello sostanziale – gli altri sovrani e principi della Casa di Barcellona, forse con la sola eccezione di Alfonso, sono sempre trovatori occasionali –, ha però un suo valore simbolico: se per il padre Pietro l’assenza dal catalogo dei trovatori è come compensata dalla quantità di menzioni elogiative e di dediche, essa nel caso di Giacomo rende manifesta una certa indifferenza rispetto alla scuola poetica e dà come la misura tangibile di un distacco maturatosi a quell’altezza cronologica fra la tradizione dei trovatori, da un lato, e il potenziale grande mecenate della casa di Barcellona dall’altro.

Conviene subito chiarire ed articolare meglio sulla base dei dati disponibili questa conclusione che è così espressa in termini eccessivamente sommari. Durante tutta la prima parte del regno di Giacomo, sino al 1260 circa (nodo per tanti versi essenziale) si riconoscono in Catalogna contatti saltuari, nel complesso poco significativi:

 

— Gausbert de Poicibot nei primi anni 1220 dedica una canzone a Giacomo, probabilmente, alla moglie Eleonora di Castiglia [36]; Gausbert svolge il resto della sua attività soprattutto nel Nord del dominio occitanico, legato a Savaric de Mauléon. È possibile che il soggiorno ‘in Spagna’ di cui parla la sua vida antica possa includere anche le terre catalano-aragonesi. Accanto alla dedica di cui si è detto, due lievi tracce testuali e di tradizione individuano una presenza che, almeno ipoteticamente, potrebbe essere stata di un certo peso: l’inserzione di una strofa di Gausbert in uno dei frammenti catalani di So fo el temps c’om era jais di Raimon Vidal e la presenza di due suoi testi (le canzoni 173,6 e 173,8) nel piccolo e nel complesso fortemente selettivo canzoniere V, copiato appunto in Catalogna. Basti per ora dire che in ogni caso, sulla base della dedica della canzone 173,11, questo contatto di Gausbert con la corte catalana sembra da assegnare agli anni 1220, dunque alla prima fase del regno di Giacomo e da intendere, forse, attraverso la mediazione della prima moglie, Eleonora di Castiglia;

 

— Sordello probabilmente passa dalla Catalogna durante la prima fase delle sue peregrinazioni fuori d’Italia, ma non ci si ferma [37], mentre si stabilisce in Provenza, inserendosi appieno nell’ambiente e seguendo l’esempio di tanti trovatori della generazione immediatamente precedente alla sua, da Cadenet a Falquet de Romans a Elias de Barjols: è lì che lo vediamo, non in Catalogna;

 

—  è ancora attivo in area catalana Aimeric de Belenoi, cui si deve all’inizio degli anni 1240 il notevole compianto in memoria di Nunyo, conte di Rossiglione e Cerdanya, morto nel gennaio 1242; è questo però l’unico contatto certo e, va sottolineato, concerne il più ‘occitanico’ dei signori catalani, già direttamente coinvolto in Linguadoca e Provenza negli anni 1210 col padre Sancho, dedicatario a sua volta di un’altra canzone di Aimeric (Nulls hom non pot complir adreizamen, BdT 9,14) [38];

 

— alla fine degli anni 1230 giunge in Catalogna Guilhem de Montanhagol, abbandonata la Contea di Tolosa. Guilhem riceve una donazione all’epoca della conquista di València (1238) e la ricompensa sembra individuare un rapporto almeno di una qualche rilevanza. Ma neppure Guilhem si ferma, né lascia tracce testuali evidenti, se non polemiche e da lontano; il trovatore sembra essere rientrato rapidamente presso Raimondo VII di Tolosa, e dopo la morte di questi, concretamente dall’inizio degli anni 1250, lo troviamo in Castiglia presso Alfonso X. Guilhem in seguito ritorna probabilmente in Catalogna, ma questa nuova presenza, ormai sull’ultimo scorcio degli anni 1260, è da ricondurre ad una situazione ancora mutata ed all’emergere quale nuovo punto di riferimento dell’Infante Pietro [39].

 

Insomma, per tutta la prima parte del regno di Giacomo, fra il 1220 e il 1260, i contatti sono saltuari, come indicano quantomeno i casi, fra loro diversi, di Gausbert de Poicibot, di Sordello e di Guilhem de Montanhagol; e se si può pensare a una semplice impressione prodotta dalla tradizione manoscritta, anche l’ipotetica dispersione non sarà senza significato dal momento che sono proprio questi i decenni-chiave per l’organizzazione dei canzonieri). Sino al 1260 all’incirca la corte di Giacomo continuò dunque a figurare tra le mete ‘possibili’ per trovatori anche di spicco, ma solo come punto di passaggio nelle loro peregrinazioni più che di arrivo o di sosta prolungata e produttiva. Il cambiamento di segno rispetto al padre Pietro II è tangibile: per nessuno di questi trovatori possiamo parlare di un rapporto con Giacomo prolungato nel tempo, né si riconoscono gruppi di autori riunitisi intorno a lui.

Provo ad avanzare un’ipotesi di valutazione. La poesia cortese dei trovatori non è bandita dalla corte catalana, ma ad essa non è associata nessuna speciale rilevanza ed il re Giacomo non si propone affatto come protettore eminente e punto di riferimento, a differenza dei suoi due predecessori e del cugino Raimondo Berengario di Provenza, colui che invece, come ricorda Peire de Castelnou nel 1266, «retenc» (‘trattenne’) giustamente presso di sé Sordello (cfr. Oimais no·m cal far plus long’atendensa, BdT 336,1). Se è verosimile che per Alfonso II la poesia dei trovatori sia stata anche uno strumento di auto-legittimazione, non mi sembra impossibile pensare che per il nipote Giacomo la rinuncia al mondo tolosano-linguadociano e la manifestazione di scarso interesse nei confronti della stessa contea di Provenza siano passate anche attraverso un distacco di tipo ‘istituzionale’ dalla tradizione lirica dei trovatori; non è abbandonata la pratica della canzone quale passatempo cortese, piacevole abitudine di società che possiamo presumere si sia conservata pur in assenza di testimonianze sicure, così come pare si sia conservata nella prima metà del secolo XIV, ma si prendono le distanze dalle valenze culturali, politiche e di identità linguistica e in certo modo anche nazionale che si erano venute associando alla poesia dei trovatori e che sono rivendicate da autori occitanici del periodo. Si accompagna a ciò un giudizio severo nei confronti dei signori del Midi [40] e verso lo stesso gruppo sociale dei cavalieri che, in un modo o nell’altro, era quello più strettamente legato all’identità trasmessa dalla poesia trobadorica [41].

Quanto detto vale per la prima parte del regno di Giacomo, sino al 1260 circa; qualcosa pare mutare a partire all’incirca da questa data e nel cambiamento è verosimile che il figlio ed erede Pietro abbia giocato un ruolo di primo piano. Guilhem de Montanhagol è attestato presso di lui nel 1268, negli stessi anni in cui è documentata la presenza di Paulet de Marseilla, esule dalla Provenza [42]: due trovatori apertamente schierati sul fronte anti-francese. È a Pietro più ancora che al padre Giacomo che appare legato Cerverí de Girona sin dall’inizio della sua attività; è ancora a Pietro che sono indirizzate due delle epistole di At de Mons. Certo, il quadro non è neppure lontanamente comparabile con la situazione riscontrata attorno ad Alfonso II e a Pietro II, ma sono ormai profondamente diverse le condizioni e le modalità in cui si articola la tradizione trobadorica in questo suo ultimo periodo. Credo che i dati disponibili siano sufficienti ad affermare che con Pietro il Grande, prima come Infante e poi nei dieci anni di regno, e certo almeno in parte per sua iniziativa la corte d’Aragona riacquista una posizione rilevante, quale punto di riferimento riconosciuto, come non era mai stata in precedenza durante il regno di Giacomo.

Altri segnali importanti inducono ad accentrare l’attenzione sui tardi anni 1260. Nel 1268 viene copiato il canzoniere oggi a Venezia (canz. prov. V), che presenta una selezione ristretta, ma altamente rappresentativa di trovatori classici, attivi sino alla prima metà del secolo XIII, accanto al Roman de les quatre vertutz cardenals di Daude de Pradas, d’impianto didattico-moralistico. In questi anni anche il re Giacomo riconquista un’immagine positiva presso i trovatori che gli era stata negata sino agli anni 1250, testi ne siano Bonifaci de Castellana, Guilhem de Montanhagol e Bernart de Rovenac. Olivier lo templier dedica interamente a lui la canzone di crociata Estat aurai lonc temps en pessamen (BdT 312,1) composta nel 1269 e nel medesimo periodo altre canzoni di crociata sono composte da Cerverí de Girona (En breu sazo aura·l iorn pretentori, BdT 434a,20) e da Guilhem de Murs (D’un sirventes far mi sia Deus guitz, BdT 226,2); il ritratto del re che qui si delinea anticipa quello del compianto di Matieu de Caersi, Tant suy marritz que no·m puesc alegrar (BdT 299,1). Secondo l’ultima proposta formulata da Anton Espadaler, il Roman de Jaufre nella versione oggi conosciuta – è noto che esiste la concreta possibilità di una stesura in due tempi ad opera di autori distinti – potrebbe stato completato per Giacomo I e negli ultimi anni del suo regno, all’epoca dei progetti di Crociata coltivati dall’anziano re e forse in rapporto con essi e quale prodotto letterario utilizzabile anche in termini di immagine [43]: la densità e la qualità della presenza trobadorica nel Jaufre implicano una presenza ‘forte’ della tradizione trobadorica quale riscontriamo da un lato sino ai primi anni di regno di Giacomo e dall’altro nell’epoca di attività di Cerverí, e quale si concretizza nella scelta e nell’ordinamento del canzoniere V. È da riconsiderare in questo quadro la dedica a Giacomo del sirventese Totz lo mons es vestitz et abarratz di Peire Cardenal (BdT 335,62), contenuta nella tornada 6, presente solo nel canzoniere T; si tratta di un testo certamente tardo [44] e forse addirittura tardissimo, stando alla tornada 7, trasmessa solo da M e contenente una doppia dedica a Edoardo d’Inghilterra e al re Filippo di Francia che permetterebbe di collocare il testo nella primavera del 1272. Accettando l’autenticità di questo secondo invio, la dedica a Giacomo potrebbe iscriversi nel clima dei preparativi di Crociata; se si pensa invece che la tornada di M sia apocrifia, come mi pare anche possibile, e che in particolare sia stata aggiunta da un copista o compilatore di ambito napoletano-angioino, resta l’invio a Giacomo di un testo della seconda metà degli anni 1250 o del decennio successivo [45], che riprende, quasi ricalcandololi, i termini dell’elogio indirizzato da Sordello al giovane sovrano quasi trent’anni prima [46]. In ogni modo mi pare da sottolineare la modificazione che l’immagine di Giacomo pare subire nella poesia dei trovatori fra gli anni 1250 e il decennio successivo. Ancora attaccato da Bernart de Rovenac e da Guillem de Montanhagol intorno al 1250 a causa del suo disimpegno dalla Francia, Giacomo riconquista un apprezzamento positivo in relazione col suo interessamento per l’Oriente e per la Crociata. Il tema non è del tutto ‘neutro’ in questo torno di anni, poiché l’invocazione della Crociata in Oriente si associa assai spesso ad intonazioni apertamente anti-clericali, ispirate dal sempre più chiaro coinvolgimento di parte della Chiesa nelle questioni politiche e istituzionali (Bertran d’Alamanon); alla fine del decennio l’accusa si farà più diretta, secondo un’ispirazione definibile come ghibellina, dai toni apertamente e violentemente anti-angioini (Calega Panzan).

Due linee non concorrenti paiono organizzare la rinnovata presenza trobadorica intorno alla Corona d’Aragona: una più moralistica e connessa principalmente al tema della crociata e al re Giacomo, l’altra più consona alla tradizione anche amorosa e all’ideale cavalleresco, vicina invece all’Infante Pietro. Soprattutto nella seconda, forse in certa misura anche nella prima, si affaccia un aspetto anti-angioino (più che anti-francese: l’attenzione è ormai catturata dal Mediterraneo, nuovo baricentro dell’azione della Corona d’Aragona, e gli sguardi, tra loro non assimilabili, del Re e dell’Infante sono rivolti a Oriente, non più a Nord). Non credo azzardato accostare a questo riannodato rapporto con la tradizione trobadorica l’inserimento nella Crònica di Desclot delle due leggende dinastiche dei capitoli iniziali, quella di Guillem de Montcada e quella del ‘buon conte’ di Barcellona e dell’Imperatrice di Germania, che finiscono col presentare l’eredità provenzale, nuovamente rivendicata nel quadro dello scontro con gli angioini, sullo stesso piano di quella aragonese. Istanze politiche e forme poetiche sembrano dunque trovare un terreno comune con Pietro – e già negli ultimi anni di Giacomo, ma con prevalenza della figura dell’Infante – e nel quadro dello scontro, che è anche culturale, che esplode nella Guerra del Vespro.

Si può provare a tirare le somme. Già un semplice sguardo alla griglia cronologica di riferimento conferma l’importanza – in senso negativo – del periodo centrale del regno di Giacomo, fra il 1229-30 (trattato di Meaux-Parigi fra Francia e Tolosa e spedizione contro Maiorca, nonché divorzio dalla prima moglie, Eleonora di Castiglia) e 1259-60 (trattato di Corbeil e alleanza matrimoniale con Manfredi di Sicilia). In questi decenni viene tra l’altro sancita la separazione dal Sud della Francia e di conseguenza risulta anche più nettamente definita l’identità della Catalogna rispetto alla Francia, di fronte al fatto nuovo costituito dalla presenza capetingia in Linguadoca e a Tolosa: un passaggio essenziale che viene recepito e rielaborato sul piano della memoria storica (l’ultima redazione dei Gesta comitum, e con essa la traduzione catalana che ne dipende, e il Llibre dels feyts).

Giocano qui le qualità individuali: se Giacomo detesta, come abbiamo visto, i cavalieri, Pietro di contro è passato alla storia ed alla leggenda come re-cavaliere per antonomasia, con una trafila che va da Desclot al Curial i Güelfa passando per Dante e Boccaccio; così anche possiamo pensare che abbia avuto il suo peso l’emergere di una figura di alto profilo come Cerverí de Girona. Sembra però indubbio un cambiamento di clima nell’ultimo periodo di regno di Giacomo: l’affermazione di Cerverí come poeta aulico è indizio di una condizione ritornata favorevole, che consentì un rinnovato riconoscimento accordato alla lirica cortese e permise di riannodare il rapporto profondo e per certi aspetti strutturale fra trovatori e sovrani catalano-aragonesi.

 

5.  Sulla posizione di Cerverí de Girona

Cerverí è sostanzialmente contemporaneo dell’altro grande trovatore dell’ultimo periodo, Guiraut Riquier de Narbona. Il confronto fra le due personalità è istruttivo sotto molteplici punti di vista. Vorrei qui proporlo in termini molto parziali, intorno ad alcuni aspetti delle scelte metriche e compositive, e da un angolo visuale ristretto, quello del delinearsi di tendenze regionali nell’ultimo periodo della tradizione trobadorica, grosso-modo nell’ultimo terzo del XIII secolo. La tendenza è generalizzata nell’ultimo periodo della scuola trobadorica: ne abbiamo altri esempi in Provenza col gruppo di trovatori conosciuto esclusivamente attraverso il canzoniere f (Paris, BnF, fr. 12432) e in Italia, ma limitatamente al solo aspetto della tradizione manoscritta, con Bertolome Zorzi.

Guiraut Riquier coniuga predilezioni in sostanza arcaizzanti con l’apertura verso forme tipicamente francesi e però non moderne (la retroencha[47] e con l’adozione estesa, quasi sistematica, di varianti possibili, ma saltuarie all’interno della tradizione trobadorica, quali quelle dei legami interstrofici (coblas capfinidas e capcaudadas, soprattutto), delle parole-rima (o motz-refrain) e delle rime ricche. Il Narbonese mira ad affermare una propria posizione di preminenza in quanto custode della tradizione trobadorica nella sua totalità, ribadendo la supremazia della figura tecnico-professionale del trovatore, maestro nella composizione di testi e melodie; per questo, sistematizzando una tendenza che si delinea già nella generazione precedente con Guilhem de Montanhagol, dedica una speciale attenzione alla creazione di forme metriche sempre nuove ed originali anche per i testi morali (i vers), che la prassi dell’epoca prevedeva composti su schemi di canzoni cortesi.

La posizione di Cerverí rispetto alla tradizione è differente. Egli è più legato ad esempi del medio Duecento (si vedano in particolare i modelli metrici dei suoi sirventesi) e disponibile all’accoglimento di tipi formali innovativi rispetto al canone cortese più consolidato, in particolare nella frequentazione delle forme ‘da ballo’ semplici e ‘popolareggianti’ (dansa, balada); la scelta è leggibile in termini sia di ricezione di esempi francesi e provenzali, sia di apertura nei confronti di tipi ‘bassi’, di tradizione popolare, a diffusione anche iberica (si pensi alle contemporanee Cantigas de Santa Maria di Alfonso X) [48]. Di contro Cerverí bilancia questa propensione con scelte di esasperato tecnicismo, che lo mostrano padrone assoluto dello strumento della versificazione (ed entrambe le opzioni possono far intuire la coscienza di un certo logorio del codice cortese).

La considerazione delle tendenze regionali induce ad interrogarsi circa i limiti cronologici imposti per generale consenso alla tradizione dei trovatori: l’anno1300. L’ultimo decennio del secolo XIII, con la scomparsa degli ultimi grandi trovatori e la contemporanea compilazione dei grandi canzonieri riassuntivi, segna un punto fermo ineludibile ed in assoluto non contestabile. Del resto, Cerverí de Girona e ancora Jofre de Foixà compaiono nei grandi canzonieri C e R (rispettivamente Paris, BnF, fr. 856 e 22543), compilati in area narbonese-tolosana; al contrario, le sporadiche apparizioni di lirica nella prima metà del XIV secolo non entrano più nei canzonieri trobadorici, neppure nel locale Sg, mentre fanno saltuariamente la loro comparsa in raccolte quattrocentesche catalane, come il canzoniere Vega-Aguiló (il Capellà de Bolquera). La natura delle raccolte manoscritte differenzia tra l’altro il sottile ‘Canzonieretto di Ripoll’, unica silloge catalana del primo Trecento (così denominata dal luogo di provenienza del manoscritto, ora all’Arxiu de la Corona d’Aragó di Barcellona, ms. Ripoll 129) [49], dalla collezione di tardi poeti di origine provenzale che figurano solo nel coevo piccolo canzoniere trobadorico f (Paris, BnF, fr. 12432) [50]; questi autori sono sì talora in attività ben addentro al Trecento, ma il manoscritto li inserisce accanto a trovatori ‘classici’ delle generazioni precedenti, mentre il ‘Canzonieretto di Ripoll’ è una raccolta ‘di generazione’, costituita intorno alla figura dominate del Capellà de Bolquera.

Ciò detto, e ribadita così la piena validità dei termini cronologici generalmente accettati per l’intera scuola trobadorica, va anche però affermata l’esistenza di un territorio di confine ove non è possibile stabilire barriere nette. Il superamento del limite cronologico è evidente nella collezione provenzale raccolta nel canzoniere f: qui una continuità di tradizione regionale, labile e affidata a figure del tutto minori, si prolunga con sicurezza ben addentro il Trecento. D’altro canto alcune caratteristiche compositive peculiari di Guiraut Riquier, specie per quanto concerne l’adozione pressoché continua e strutturale di artifici metrico-rimici e retorici, lo additano come antesignano della Scuola tolosana del Gay Saber. Considerazioni simili sono proponibili anche per la Catalogna e per Cerverí. L’innovazione formale, di cui abbiamo diversi esempi nell’opera di questo trovatore, sembra in effetti guidare la composizione di testi lirici tra la fine del XIII secolo e la prima metà del XIV, quindi oltre il termine che si suole assegnare alla poesia dei trovatori; si tratta di deboli tracce che stabiliscono una labile continuità che conduce sino alle soglie dell’effettiva ricostruzione di una tradizione lirica catalana, a partire dal 1360 circa. La forma di dansa domina nel ‘Canzonieretto di Ripoll’: la tematica cortese tradizionale vi è ravvivata da nuovi orientamenti di gusto, percepibili, oltre che nelle strutture metriche, nella predilezione per le rime ricche e derivative. La medesima forma di dansa è ancora utilizzata in un’isolata composizione mariana attribuita a Giacomo II, re di Sicilia, composta intorno al 1290, ricompare in occasionali testimonianze dei medesimi anni (frammenti da San Joan de les Abadesses) ed è riconoscibile alla base di alcune liriche religiose, riconducibili al medesimo arco di tempo – fine XIII-inizi XIV secolo – e specialmente importanti perché attestano la penetrazione delle nuove forme ‘alla moda’ fin in ambiente clericale (testi del Llibre Vermell di Montserrat e poesie latine aggiunte nel ms. Paris, BnF, lat. 5132).

Ragionando in quest’ottica pare dunque impossibile, a rigore, tracciare confini cronologici e discrimini sicuri fra la poesia dei trovatori provenzali e quella più schiettamente catalana, cui apparterebbe, per esempio, la piccola scuola del ‘Canzonieretto di Ripoll’ (e questa considerazione vale forse anche per la regione tolosana). La questione non è però soltanto affrontabile in termini di scomposizione della tradizione trobadorica e di continuità e discontinuità in ambito regionale. Alcuni aspetti dell’opera di Cerverí stesso e della sua trasmissione, considerati rispetto alla successiva tradizione trecentesca, gli assegnano una posizione di cerniera, di grande rilevanza storica, fra le due tradizioni, distinte e però tra loro interconnesse. L’utilizzazione da parte di Cerverí di schemi metrici innovativi rispetto alla tradizionale forma di canzone è probabile non sia solo il riflesso di un gusto in via d’affermazione, ma abbia anzi contribuito ad imporre una voga destinata a durare nel tempo e che abbia guidato alla transizione verso le forme fisse che pare accennarsi attraverso il ‘Canzonieretto di Ripoll’ e i trattati ad esso legati. Inoltre, la saltuaria frequentazione da parte di Cerverí di forme narrative stabilisce una certa continuità fra Raimon Vidal e la produzione di novas del Trecento. Questa impressione è confermata dall’analisi della tradizione manoscritta. Le opere di Cerverí, presenti con una ridotta scelta di liriche nei canzonieri trobadorici C e R, occupano la zona di apertura di un canzoniere, Sg, posteriore alle altre grandi raccolte di poesia trobadorica e certamente legato alla nuova tradizione che si cerca di reinstaurare in Catalogna, segnatamente intorno alla corte di Barcellona e nella seconda metà del Trecento, sul modello dell’operazione tolosana del Consistori del Gay Saber. Analogamente, i testi in metro narrativo e i proverbi compaiono nel cosiddetto ‘Canzoniere dei Conti d’Urgell’ (Madrid, BN, Res. 48) accanto alla Faula di Guillem de Torroella, autore eminente degli anni intorno al 1370. Le frequenti menzioni negli inventari di manoscritti del XIV e XV secolo assicurano che la diffusione delle sue opere fu «àmplia, extensa en el temps i variada en le categories dels usuaris», e confermano ulteriormente «la centralitat de la figura de Cerverí de Girona com a pont essencial entre l’antiga escola trobadoresca i la nova escola barcelonina dels segles XIV i XV» [51]. In sostanza, mentre nella seconda metà del secolo XIII si estingue la tradizione dei trovatori, si comincia a definirne una nuova già ‘catalana’; la scuola nazionale che si costruisce dal secondo Trecento assume coscientemente Cerverí come modello e punto di riferimento.

C’è un riscontro importante sul piano della trattatistica linguistico-grammaticale. Le Regles de trobar di Jofre de Foixà, composte intorno al 1290, esprimono una coscienza linguistica diversa rispetto alle Razos de trobar di Raimon Vidal (inizio del secolo) e più nuova, che modifica il quadro rispetto al ‘cosmopolitismo’ occitanocentrico dell’età trobadorica. Il trattato di Jofre presenta il catalano come lingua distinta dall’occitanico, al pari del francese, e già dotata di una propria autonomia; la differenza è sensibile rispetto all’assunto di partenza di Raimon Vidal, il quale aveva operato una distinzione fra diversi livelli del sistema linguistico, contrapponendo l’«art» all’«us», ossia la lingua letteraria a quella abituale. Si riflette forse nelle Regles de trobar il cambiamento prodottosi nello scenario politico internazionale ed il nuovo protagonismo mediterraneo della Corona d’Aragona. Una volta stabilito un confine reale fra Occitania e Catalogna, l’affermazione dello stato catalano-aragonese lontano dalle terre occitaniche cui a lungo era stato legato può avere contribuito alla presa di coscienza definitiva di un’autonomia catalana, in opposizione al sentimento sovranazionale che era stato caratteristico della linea trobadorica, soprattutto alla fine del Cento e nel primissimo Duecento.

In sintesi. Le discontinuità riscontrate nella presenza dei trovatori in Catalogna e nel rapporto da essi stabilito con i sovrani della Corona d’Aragona, l’apparizione di Cerverí intorno al 1260 e l’eredità che lascia nel secolo successivo, le pur deboli tracce di continuità nella produzione poetica che travalicano il limite dell’anno 1300 sono fattori che, considerati congiuntamente, inducono a proporre per la Catalogna una scansione cronologica che non sostituisca quella più generale della scuola trobadorica e che valga però come sua più precisa riarticolazione sul piano locale, al fine di mettere in luce la fase di rinascita che si apre nel decennio 1260-1270 e nella quale non sarà fuori luogo scorgere le origini, più ancora che le dirette premesse, della nuova scuola nazionale catalana.

 


 

Appendice 1

Guilhem de Berguedà (BdT 210,17) [52]

  

Reis, s’anc nuill temps foz francs ni larcs donaire

ni encobitz per las autrui moillers,

penedenssatz vos en cum hom pechaire,

qu’eras lor etz enemics e gerriers;

e parec ben ogan al primier cors

que vos vim far a las primieiras flors,

per que dompna, s’oimais vos a bon cor,

de vostr’aver vol creisser son tresor. 

 

Reis, si fos vius lo pros coms, vostre paire,

non feira pas, per mil marcs de deniers,

la Marquesa far fondejar ni traire

aissi cum faitz vos e vostres archiers.

Na Sibiuda trai per un dels auctors,

cui vos ametz et ill vos fetz amors,

que, si non ment En Raimons de Timor,

plus durs l’era que frusca q’eis del tor.

 

E puosc vos dir planamen mon vejaire,

reis deschausitz, ben a dos ans entiers,

e pot vos hom ben mostrar e retraire

la comtessa q’es dompna de Beders,

a cui tolguetz, qan vos det sas amors,

doas ciutatz e cent chastels ab tors:

de tot en tot era de perdre l’or

tro·l de Saissac i mes autre demor.

 

Reis castellans, q’etz en luoc d’emperaire:

aissi cum etz rics de totz bos mestiers,

mandatz viatz per tot vostre repaire

vostras grans ostz a flocs et a milliers;

e faitz nos sai un avinen socors,

per que totz temps n’aiatz pretz e lauzors;

q’a Lerida vej’om dinz e defor

los fums de l’ost, e nos de Montesor. 

 

Coms de Tolsan, parton se las amors

s’a Marquesa non faitz calque socors,

que val trop mais non fetz Elionor:

eras parra si l’amatz de bon cor.

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Appendice 2

Peire de Bragairac (BdT 329,1) [53]

 

Bel m’es cant aug lo resso

que fai l’aubercs ab l’arso,

li bruit e·il crit e·il masan

que·ill corn e las trombas fan

et aug los retins e·ls lais

dels sonails; adoncs m’eslais

e vei perpoinz e ganbais

gitatz sobre garnizos;

m’azauta el frims dels penos.

 

E platz mi guerra e·m sab bo

entre·ls rics homes que so;

e dic per que ni per tan;

car nuilla ren non daran

menz de guerr’e de pantais.

cascus se sojorna e·is pais,

entro que trebaillz lor nais;

pois son larc et amoros,

humil e de bel respos.

  

Oimais sai qu’auran sazo

ausberc et elm e blezo,

cavaill e lansas e bran

e bon vassaill derenan;

pois a Monpeslier s’irais

lo reis, soven veiretz mais

torneis, cochas et essais

als portals maintas sazos,

feiren colps, voidan arsos.

  

E si·l bos reis d’Arago

conquer en breu de sazo

Monpeslier ni fai deman,

eu non plaing l’anta ni dan

d’en Guillem, car es savais,

ni·n tem lo seignor d’Albaus,

anz mou tal ais,

per la fe que dei a vos,

no sai si l’er danz o pros.

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Pubblicato in Mot so razo, n. 1, 1999, pp. 12-31.

Versione riveduta messa in rete il 7.x.2002.